Quando avevo più o meno diciassette anni, ho costretto i miei genitori a comprarmi una collana di romanzi che la Fabbri vendeva porta a porta: una cinquantina di opere di scrittori (più o meno) famosi, con una pretenziosa rilegatura rigida, copertina rosso e oro. Sembravano usciti dalla libreria di un vecchio notaio e apparivano piuttosto a disagio nei miei scaffali, tra i libri di scuola strapazzati e i romanzi in edizione economica della BUR.
La stragrande maggioranza di questi libri si sono ingialliti negli anni senza che io li abbia letti, ma da qualche tempo ho deciso che ci sono testi che devo “recuperare” approfittando delle vacanze estive e così quest’anno ho “scoperto” Furore di J. Steinbeck.
So che è un libro arcinoto di uno scrittore strafamoso e perfino premio nobel, ma vi meravigliereste se sapeste quanta gente non ha mai letto i libri che vengono generalmente considerati dei “must”, come si dice oggi… perfino tanti “addetti ai lavori” parlano a volte di opere che hanno soltanto sfogliato… (D’altra parte, come diceva Massimo Troisi, “"Sono milioni e milioni a scrivere e io da solo a leggere...").
Ad ogni modo, ho cominciato a leggerlo senza troppo entusiasmo, perché l’anno scorso avevo scelto, sempre dalla stessa pretenziosa raccolta, Pian della Tortilla e, benché fossi arrivata diligentemente fino in fondo, non mi aveva esaltato.
Invece Furore, che non ho ancora finito, mi sta piacendo molto (ops, è lecito usare il verbo “piacere” alla forma continuata?) soprattutto per la sua struttura: un continuo cambiamento di punti di vista, che consentono allo scrittore di guardare/mostrare alternativamente da vicino e da lontano i suoi protagonisti.
A dire il vero, c’è anche da chiedersi chi siano, i protagonisti della storia: all’inizio è Tom, che torna a casa dal carcere, ma poi la sua storia si fonde con quella della sua famiglia, la quale a sua volta appare come un’esemplificazione della storia di un popolo, che potrebbe essere la storia di tutti i popoli che migrano, spinti e costretti dalle avverse condizioni di un mondo che viaggia anch’esso, ma secondo regole aliene dalla volontà dei singoli.
Allora, viene da chiedersi se la migrazione sia quella dei contadini americani della fine degli anni Trenta, o quella degli africani che sbarcano oggi a Lampedusa… o forse la condizione permanente dell’uomo sulla Terra, come suggerirebbe il titolo originale, The Grapes of Wrath, che significa letteralmente I frutti dell'ira (chissà perché non l’hanno mantenuto anche in italiano) ed è una citazione biblica, come a voler dare un senso universale al racconto, che si presenta invece così attaccato alla terra, con il suo linguaggio fin troppo realistico (almeno per quei tempi) che purtroppo, come sempre succede con le traduzioni, in italiano non rende.
Confesso di non aver mai visto neppure il film, ma, finito il libro, cercherò di rimediare.
Lorella
Ho riletto "Furore" circa due anni fa, all'inizio dell'attuale crisi economica, e vi ho ritrovato descritti scenari e umori sociali nei quali rischiamo di gettare il nostro prossimo futuro. Sfruttamento e guerre fra poveri,opportunismo e solidarietà umana ai limiti della sopportazione fisica, danno l'esatta misura dei rischi che corre una società opulenta come la nostra nel momento di rottura degli equilibri economici.
RispondiEliminaUn grande romanzo a partire dai personaggi ceselati da Steinbeck, così come dal magnifico B/N del film che ne fu tratto.
Hai ragione, Roberto; ciò che mi ha provocato un po' d'inquietudine è il fatto che il romanzo è stato scritto nel 1939... non abbiamo imparato proprio nulla da allora?
RispondiElimina