Vi propongo alcuni stralci di una bella intervista allo scrittore Sandro Veronesi - vincitore nel 2006 del Premio Strega con Caos calmo, e attualmente in libreria con XY edito da Fandango Libri- pubblicata sul settimanale Gioia del 21/01/2011, e realizzata da Giancarlo Dotto, poiché mi pare presenti diversi spunti di riflessione sul mestiere di scrivere.
(...) E' riuscito a scrivere lo stesso in quei mesi di strazio?
(il giornalista si riferisce alla malattia e morte del padre dello scrittore)
Carmelo Bene diceva: «Il dilettante recita a memoria, il professionista legge». Parafrasandolo, il dilettante comincia a scrivere quando comincia a soffrire, il professionista smette. Non ho voluto imbrattare il mio lavoro con la sofferenza. Nei mesi in cui portavo i miei genitori a fare chemioterapia, li ho mollati i miei personaggi, per proteggerli. Poi li ho ritrovati, quando la pena è diminuita.
(...) Il blocco dello scrittore.
Capitò con Gli sfiorati, il secondo romanzo, molto ambizioso. M'inventai allora uno strano modo che funziona: mollare subito, appena vedo che non ce la faccio, mollo, evito di dannarmi.
E' un motto giansenista: abbandonare le cose che ci abbandonano.
Non sono e non sarò mai una persona della qualità che pretendo dai miei romanzi.
Vale per tutti gli scrittori. Non credo che Joyce fosse così sublime come sono i suoi scritti. (...)
Idiosincrasie linguistiche.
Non sopporto parole come "intrigare" e "clicca".
Gli avverbi le piacciono?
Lunghi, quadrisillabi e pentasillabi. Sono colpi di frizione, come quando col cambio automatico spingi e senti qualche cosa che fa partire il motore. Mi servono nelle frasi lunghe, quando faccio le tirate. Le tirate mi piacciono, anche quando le fanno gli altri.
L'equivalente dell'assolo a teatro. Il punto e virgola le piace?
Sono il re del punto e virgola, definito così da ragazzi che studiano linguistica all'università.
Da lettore cosa trovi faticoso?
La scrittura singhiozzata. Lego la prima pagina di un libro di culto di qualche tempo fa, I miei amici di Emmanuel Bove: «Quando mi sveglio la mia bocca è aperta. I denti sono unti. Lavarli la sera sarebbe meglio». Tutti punti. Ma come si fa? Un piagnisteo che ammucchia frasi. Letteratura "cedua": tagli cento pagine e te ne vanti. Ma se le hai tagliate vuol dire che avevi scritto cento pagine brutte. (...)
Mi è piaciuta la dichiarazione di Veronesi quando dice che ha abbandonato la scrittura nel momento del suo dolore privato per non "imbrattare" il lavoro e per "proteggere" i personaggi.
RispondiEliminaL'ho sentito umano.
Invece non ho capito cosa intende nella risposta sul blocco dello scrittore. Se è vero che mollava quando vedeva che qualcosa non funzionava, allora come ha fatto a finire il libro? Ha abbassato le sue aspettative sul proprio lavoro? Boh, non ho capito.
Poi non sono d'accordo sul punto e virgola. Io lo trovo inutile, non mi piace e cerco di non usarlo.
Quanto alla sua idiosincrasia su "clicca", vorrei proprio vedere se trova un sinonimo...
Questa volta non concordo con Manuela: condivido il modo in cui Veronesi parla della lingua. Anch'io amo le frasi lunghe, credo che gli avverbi siano fondamentali e uso spesso il punto e virgola. Anche a me non piace la scrittura "singhiozzata" e credo che sia una forma che mal si adatta alla nostra lingua. L'abbiamo importata dalle lingue anglosassoni, dove ha senso perché la struttura linguistica è diversa. mentre l'italiano è per natura una lingua che si esprime meglio in frasi più articolate. Un po' come nella musica: ci sono lingue più adatte al rock, altre più adatte al genere melodico... è una questione di sound...
RispondiEliminaAzzardo una ipotesi: forse la scelta delle frasi più o meno lunghe è anche funzionale al tipo di narrazione. Nel senso, magari nel caso di un giallo o di un poliziesco, dove l'azione ha un ruolo importante, la frase corta dà alla narrazione un ritmo più teso e nervoso. La frase lunga, avendo un andamento più disteso, magari è più adatta ad un tipo di narrazione meno di azione e più di riflessione, di descrizione.
RispondiEliminaSi, sono d'accordo, ma ho la sensazione, che magari è soggettiva, che in inglese le frasi lunghe funzionino poco in genere. Viceversa per l'italiano. Ad esempio mi viene difficile pensare che in inglese si possa fare un periodo con varie subordinate, anche per fare una descrizione; mi sembra che la frase ne risulterebbe contorta e "poco anglosassone". In italiano, viceversa, anche se si usa uno stile veloce, i periodi formati da una frase minima mi sembrano una forzatura alla lingua.
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