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giovedì 3 febbraio 2011

IL VOCABOLARIO DELLA LIBERTÀ (suggerito da Barbara)

(dal Resto Del Carlino del 02-02-2011)
Fatta l'unità si pensò alla lingua comune. Manzoni consigliò il fiorentino e testi dialettali 'comparativi'.

di Maria Luisa Altieri Biagi (Docente di Storia della lingua italiana, Università di Bologna) -

«Osanna, finalmente ci siamo contati! Non più scuse, non più sconce finzioni, non più insinuazioni maligne. I due partiti si sono divisi l'uno dall'altro, come si divide l'acqua dall'olio; di qua gli italiani, di là i separatisti!» ('La Nazione', 18 marzo 1860). Così il Collodi commentava il plebiscito  che aveva deciso l'unione della Toscana al Piemonte: 366.571 i votanti desiderosi di diventare «italiani»; 14.000 i «separatisti», favorevoli al ritorno del Granduca Leopoldo. Maturavano così - per volontà popolare, oltre che per accordi diplomatici e azioni militari - le condizioni che permisero a  Vittorio Emanuele II di proclamare il «Regno d'Italia» (17 marzo 1861).
Raggiunta l'unità politica, si pensa alla lingua e il ministro dell'istruzione chiede a un Manzoni più che ottantenne, come «rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia».
E il Manzoni risponde con una relazione ('Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla') che conferma la sensibilità sociale da lui mostrata con le continue correzioni ai 'Promessi Sposi', a creare una «lingua dell'uso» che fosse «bene comune» del popolo italiano; parole di livello letterario (frequenti nell'edizione del 1827) vengono sostituite da parole  quotidiane nell'edizione del 1840: accorata/mesta, affranta/stanca, conquisa/vinta, fievole/debole, immoto/immobile, occultato/nascosto, sùbita/improvvisa, tacito/zitto, tapina/misera, ecc. Per diffondere la «buona lingua» il Manzoni consiglia un vocabolario italiano basato sull'uso fiorentino e vocabolari dialettali «comparativi», che facilitino il passaggio dai dialetti alla lingua. Meno attuabile la proposta di trasferire maestri toscani in altre regioni, a formare o aggiornare insegnanti locali.
Quale era, realmente, la situazione linguistica della neonata «nazione»? Nel 1861 i cittadini italiani erano circa 22 milioni; diventerenno 26 milioni dopo l'annessione del Veneto (1866) e la conquista di Roma (1870). Incerto invece il numero degli italofoni: la percentuale proposta dai linguisti oscilla dal 2,5% a più el 12% (dai 630.000 ai 3 milioni di individui).
Più che scegliere in una "forbice" così ampia, dovremmo ammettere un numero molto più alto di cittadini forniti di «conoscenza passiva» dell'italiano: quelli che, pur parlando un dialetto, erano in grado di "capire" (e quindi facilitati a imparare) l'italiano parlato da altri con cui avevano rapporti sociali o lavorativi. Un numero destinato a crescere rapidamente per il forte aumento della popolazione che, a fine secolo, superava i 50 milioni (più che raddoppiata, dunque, rispetto al 1861). E i nati nella seconda metà del secolo erano certamente più scolarizzati dei nati nella prima metà, grazie alla migliorata organizzazione scolastica postunitaria.
Aumentano i lettori, e quindi gli scrittori e le tirature di giornali, romanzi d'appendice, novelle, segretari galanti, libri per ragazzi, per signorine... Di un romanzo di Jolanda (Maria Majocchi Plattis, 1864-1917), 'Le tre Marie', furono vendute più di centomila copie. Tanta crescita era accompagnata da un appiattimento linguistico che un critico fine come Renato Serra così descriveva, nel 1913: «Quello che sembrava un mito, un ideale favoloso, l'unità della lingua e del tipo letterario, oggi comincia ad essere un fatto compiuto e  pacifico, tanto naturale che la gente quasi non se ne accorge: non si sente più, oggi, a leggere, se l'autore sia lombardo o piemontese, o siciliano. Oggi tutti scrivono, in modi diversi, press'a poco la stessa lingua; con una certa pulizia, più che proprietà, e scelta e ricchezza di vocabolario comune...». E' lo «stampo unico», il «tipo unico», di cui Serra un po' si rallegra e un po' si lamenta, perché «l'uniformità dello stampo finisce preso a uguagliar tutto».
Saranno le avanguardie letterarie e i pochi ma grandi scrittori del Novecento a rinnovare la  lingua. Saranno i molti e grandi poeti dello stesso secolo a restituire colori alle sbiadite parole di tutti: «le tue parole iridavano come scaglie/della triglia moribonda». (E. Montale).

4 commenti:

  1. La riflessione sulla lingua mi ha sempre affascinato, tanto che mi piacevano un sacco all'Università quegli esami noiosissimi di filologia e glottologia... condivido l'opinione di Serra, perché l'uniformità linguistica rende gli scritti comprensibili a tutti, ma allo stesso tempo appiattisce. Il problema, dopo Manzoni, se lo sono posti in tanti, risolvendolo in qualche caso con delle geniali intuizioni, come la lingua di Verga nei Malavoglia (naturalmente secondo me, che non sono un semplice lettore...).
    Personalmente, i regionalismi troppo spinti mi infastidiscono, ma senza dubbio le connotazioni regionali danno "corpo" alla narrazione, anche perché l'italiano standard è, mi pare, meno ricco delle parlate regionali e ci sono espressioni che possono esprimere la loro efficacia solo se non vengono tradotte. Io non ho ancora trovato, ad esempio, una singola parola italiana che renda in pieno il romagnolo "invornito" (che non è soltanto "sciocco" o "tardo" o "distratto" ma queste cose tutte insieme o in alternativa, a seconda del contesto, non vi pare?)

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  2. Sono d'accordo che l'uniformità linguistica abbia contribuito all'appiattimento del linguaggio.
    Ultimamente mi è capitato di leggere autori che nei loro romanzi hanno recuperato il dialetto. Penso al lavoro fatto da Marcello Fois - ad esempio in "Stirpe" - con il sardo (che tra l'altro mi pare non sia un dialetto ma una vera e propria lingua), oppure Mariolina Venezia in "Mille anni che sto qui" con il dialetto della Basilicata, Laura Pariani con il dialetto milanese in "Milano è una selva oscura", per non parlare di Erri De Luca con il napoletano.
    Leggendo questi romanzi ho avuto la sensazione che nessun termine della lingua italiana avrebbe potuto rendere così bene ciò che veniva detto in dialetto, soprattutto se era riferito al passato. C'è da dire però che i più giovani di questi scrittori hanno 50 anni, non so se qualche scrittore al di sotto dei 40 anni abbia mai fatto un simile lavoro di recupero.
    Mi ricordo che da bambina c'era una frase dialettale per indicare quando una ragazza usciva con il fidanzato, ed era: "la va a fè l'amor", cioè : "va a fare l'amore", che non aveva niente a che fare con l'atto sessuale. Poiché il dialetto è una lingua pratica, concreta, era più un voler dire che andava a "fare" un sentimento, a costruire qualcosa, così come si costruiva una casa, o si andava a vendemmiare o a seminare il grano. Anche una frase del genere se tradotta in italiano perde molto del suo significato.

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  3. Bella questa frase dialettale del "fare l'amore" come costruzione di un sentimento. Credo che il concetto dovrebbe essere recuperato non solo per i giovani che devono imparare a "fabbricare" un rapporto, ma anche per gli adulti quando ci "riprovano" con relazioni che dovrebbero essere mature e spesso non lo sono affatto... ma questo è un altro discorso.

    Riguardo il dialetto in letteratura, a me non piace molto. Capisco che certe parole o frasi hanno significati difficilmente traducibili in italiano, però io sono un po' "purista" e nei romanzi preferisco quando è usato solo l'italiano.

    Mi chiedevo invece se questa introduzione del dialetto nei libri degli scrittori contemporanei (che elenca giustamente Barbara) sia tipica solo degli italiani oppure se è diffusa anche nelle letterature di altri paesi. Personalmente non ho una risposta.
    Nella maggior parte dei libri di scrittori stranieri che mi vengono in mente, c'è piuttosto l'introduzione di parole o frasi in altre lingue. Es: ne "I Buddenbrook" di Thomas Mann ci sono molte frasi in francese, in "Hotel du lac" di Anita Brookner (una scrittrice inglese contemporanea che io amo moltissimo) ci sono frasi in tedesco. Probabilmente ci sono tanti altri casi che non conosco o non ricordo.

    Tornando al discorso iniziale, forse in Italia ci sono molti dialetti (poi persi, in parte) con l'unità linguistica, mentre negli altri paesi questo non accade? Oppure sono i traduttori che, quando traducono un romanzo che so dall'americano o dal francese, traducono anche le frasi che nella versione originale sono in dialetto e quindi noi non ce ne accorgiamo?

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  4. Per quanto ne so io, i dialetti non sempre sono presenti in altri Paesi. Si trovano piuttosto variazioni linguistiche a partire da una lingua comune, mentre da noi i dialetti sono vere e proprie lingue che spesso hanno poco a che fare con l'italiano.
    Questo succede per ragioni storiche in quei Paesi che sono un unico Stato da molto tempo (ad esempio la Francia, dove già Carlo Magno si era posto il problema della lingua scritta, pur essendo praticamente analfabeta) o che comunque da tanto tempo hanno un sostrato linguistico comune, che non è stato sconvolto da tante diverse invasioni, come è accaduto da noi (ad esempio la Germania, dal tempo delle invasioni "barbariche" in poi).
    Naturalmente per gli Stati Uniti è un altro discorso...

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