Una storia di famiglia
(di Manuela Angelini)
Il 2 novembre 1943 il sole splendeva e faceva caldo. Nella casa riminese di via Tripoli si stava preparando l’occorrente per partire. La Topolino grigia venne revisionata con attenzione e riempita il più possibile di vestiario, biancheria, tegami e cibo. Il viaggio sarebbe stato lungo e tutto poteva servire. Nei giorni successivi anche i mobili e il pianoforte avrebbero preso la via di Borghi, un paese sulle colline sopra Santarcangelo dove la famiglia Oliveti si accingeva a “sfollare” per sfuggire alla guerra.
Dopo un’ultima occhiata alla casa – chissà quando sarebbero riusciti a rivederla – e aver chiuso la porta a chiave, tutti salirono sull’auto. Torquato davanti, al posto di guida, la moglie Giulia al suo fianco, con in braccio la piccola Serena di poco più di un anno e, dietro, Maria Grazia di nove anni, Alessandro di otto, Giovanna di cinque e Pierpaolo di tre.
«Così non vedo niente!», si lamentò a bassa voce Maria Grazia, cercando di guardare sopra la grande pentola che aveva sulle ginocchia e le arrivava sino agli occhi. Nessuno commentò e la bambina rimase in silenzio, spaventata dalle espressioni serie dei genitori. I fratellini, più piccoli e inconsapevoli, chiacchieravano eccitati all’idea del viaggio, scherzando e facendosi dispetti. Pierpaolo, come sempre, si era messo in mezzo, nel posto che gli piaceva di più, strillando «spostati, spostati!» e dando spintoni ai fratelli per stare un po’ più largo. Davanti, sui sedili di pelle di cinghiale (come amava ricordare Torquato) tinti di rosso, marito e moglie ripercorrevano con la mente i discorsi dei giorni precedenti: bisognava allontanarsi da Rimini, divenuta un bersaglio dei bombardamenti alleati. Nella casa in campagna avrebbero trovato posto insieme ad altri parenti e, forse, sarebbero stati al sicuro.
La Topolino cominciò a spostarsi lentamente, muovendosi un po’ a fatica a causa del peso che aveva all’interno. La strada per Borghi era piuttosto lunga e c’erano da affrontare salite e curve pericolose. Torquato guidava con perizia lungo le vie semideserte, in una città che si stava progressivamente svuotando dopo il bombardamento della giornata precedente.
Quel primo novembre 1943, Rimini era stata colta di sorpresa. Altre volte le sirene avevano mandato il loro lugubre segnale ma non era mai successo nulla. Quella mattina, invece, erano le 11 e cinquanta, gli aerei alleati arrivarono sulla città e cominciarono a sganciare le bombe. La gente nelle strade correva come impazzita per rifugiarsi in casa, alla ricerca di un posto in cui nascondersi, i bambini piangevano, terrorizzati dal rumore degli scoppi e dall’angoscia degli adulti.
Fu, quello, il primo dei 373 bombardamenti aerei (più i 14 navali) subiti dalla città durante la seconda guerra mondiale. Rimini fu quasi rasa al suolo e perse buona parte del suo patrimonio storico e artistico. Circa il 35 per cento dei fabbricati fu completamente distrutto, il 40 per cento lesionato, per un coefficiente di distruzione dell’82 per cento, il più alto d’Italia nelle città con più di 30 mila abitanti, con stime di oltre trenta miliardi di lire di danni valutate nel 1946.
In quel primo bombardamento, Rimini non aveva rifugi adeguati. Molte persone si ammassarono in uno scavo sostenuto da travi e ricoperto da terriccio. La precaria struttura doveva servire a riparare dalle schegge, ma qui – in quella che sarebbe diventata Via Vittime civili di guerra – perirono una ventina di persone. Il primo novembre 1943 furono 68 i cittadini riminesi che morirono sotto le bombe.
Molto bello Manuela, apprezzo il taglio documentaristico, si sente l'ansia. Schegge di paura ancora ficcate nelle nostre strade e nella nostra terra.
RispondiEliminaE' un racconto dal sapore... neorealista, mi piace.
RispondiEliminaBarbara
Complimenti, Manuela, secondo me dovresti proprio trovare il tempo e la voglia di continuarlo.Ha ragione Barbara, il sapore è un po' neorealista e personalmente credo che sia proprio questo lo stile che più si addice al racconto di quel periodo.
RispondiEliminaNon so se il sapore è neoreastico, certamente c'è anche un'intenzione documentaristica. Il mio intento è quello di intrecciare la storia, vera, della famiglia di mia madre con le notizie, vere, riguardanti il territorio riminese negli anni dell'ultima guerra.
RispondiEliminaPer quanto riguarda le notizie, si trovano tranquillamente sui libri o su Internet.
Molto più difficile è invece il racconto della storia di mia madre e della sua famiglia, dato che i miei nonni non ci sono più e la mamma e gli zii all'epoca erano bambini.
Dunque, il loro racconto è episodico, a volte confuso, a volte riportato dai racconti che loro stessi hanno sentito dai più "grandi".
Ho cercato di arricchire questa narrazione con sentimenti miei, in cui ho immaginato cosa avrei provato in quelle situazioni (ad es. Maria Grazia che si lamenta che non vede o lo zio Pierpaolo che dà gli spintoni ai fratellini). Questi inserimenti miei, però, non mi convincono affatto, perché se da una parte rendono meno noiosa la narrazione, dall'altra la "tradiscono" in parte.
manuela
Capisco la tua preoccupazione, ma secondo me è un falso problema, nel senso che ogni volta che raccontiamo una storia in qualche modo la inventiamo: se i tuoi nonni ci fossero ancora, ti racconterebbero il loro racconto, non i fatti come sono realmente accaduti. Di conseguenza, quando inserisci qualcosa di tuo, non fai altro che dare una tua intepretazione dei fatti. In fondo è così che nasce il romanzo storico, nella tensione tra la "realtà effettuale" e il racconto che l'autore ne fa.
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