Le recensioni del venerdì |
di Francesca Mairani
Fa un certo effetto ritrovarsi in mano un romanzo che ha ancora il prezzo in lire. E che prezzo, poi: 8.000 lire per un libello dell’Universale Economica Feltrinelli, pubblicato nel 1988 e arrivato a casa mia qualche anno più tardi, fresco di bancarella – se così si può dire – con le pagine ingiallite e la costa logorata. Ma se sei una studentessa con pochi soldi a disposizione non fai la schizzinosa, e un libro di Manfredi lo compri anche se è usato, anche se la copertina è piegata da un lato, anche se immagini che poi dovrai intervenire pesantemente di nastro adesivo. Se sei una studentessa che ti diverti solo se i libri ti tengono sulla corda e non ti lasciano abbassare mai la guardia, un libro di Manfredi lo divori.
Se poi si parla di vampiri, allora non ce ne è più per nessuno.
Della mia passione per i romanzi sui “succhiasangue” le mie colleghe Pennadoca ne hanno già sentito parlare a stufo. Amo il gotico in generale, amo i romanzi che mi fanno sentire quell’ansia leggera che si trasforma in una specie di pizzicore alla base del collo. Che non è paura nel senso puro del termine. Ma un’inquitudine strana. Come trovarsi a casa da soli e sentire cigolare una porta. Come entrare nella doccia e pensare subito a Psyco. Come ridere con gli amici guardando un film dell’orrore e poi non dormire tutta la notte. Ma del gotico in generale, il prediletto è ciò che parla di vampiri. Partendo dalla meravigliosa Carmilla di La Fanù e andando avanti.
“Ultimi vampiri” tratta, come è ovvio suppore, di vampiri. Ma vampiri ben diversi da quelli a cui cinema e romanzi ci hanno abituati di recente. Non sono gli eleganti e ambigui, affascinantissimi dandy di Anne Rice. Non sono gli atletici lottatori di “Underworld” o “Blade”, membri di società, più o meno segrete, ma strettamente gerarchizzati. Non sono neppure i buoni, casti, “vegetariani” di Stefanie Meyers. E anche con gli antenati partoriti da Stocker e Polidori, hanno poco a vedere.
I vampiri di Manfredi sono ultimi, come recita il titolo. Dei sopravvissuti. Appartenenti alla famiglia - umana e non umana, in realtà vastissima – di coloro che hanno lottato ed hanno perduto.
Il libro è diviso in sette racconti. Ogni racconto ha un’ambientazione diversa, un diverso stile narrativo – e qui Manfredi mostra parte della sua arte di formidabile affabulatore – un diverso protagonista. Che, in prevalenza, racconta la sua storia in prima persona.
Come scrive Tondelli in una recensione apparsa sull’espresso nel 1987, che si può rintracciare nel sito di Gianfranco Manfredi, www.gianfrancomanfredi.com, “Dalla Moravia del XVI secolo alla New York di questi ultimi anni passando per la Spagna dell'Inquisizione, la Francia di Luigi XIV e poi quella bonapartista della disfatta di Waterloo, Manfredi sembra più che altro intrigato dal poter raccontare non tanto le inedite avventure di non morti, dei pipistrelli della notte, dei figli della stirpe di Dracula, quanto piuttosto i rapporti magici fra l'umano e l'inumano, fra la fantasia e le proprie ossessioni, fra la cultura dominante e il diverso”.
Ed è questo modo di raccontare il “diverso”, il vampiro non come quintessenza di crudeltà ma semplicemente altro da noi, con le sue miserie e le sue grandiosità, che non coincidono mai con le nostre, che mi ha affascinata dalle prime pagine.
Dei sette racconti, il mio prediletto è il terzo “Il pipistrello di Versailles”. Linguaggio fiorito, articolato, quasi barocco. Una storia che prende il cuore. Un finale intenso. Un inizio… che suona così: “C’ero una volta io. Ero un Principe, ma non di quelli che fanno sfoggio della loro avvenenza dall’alto di un cavallo bianco. Io ero un Principe pelato, con la faccia da topo, vestito di stracci. Abitavo nella palude di Versailles, il luogo più ingrato di Francia, un deserto di sabbia semovente in cui nessuno aveva fegato di avventurarsi. C’erano con me altri quindici vampiri, tutti di nobili origini e tutti ugualmente calvi e malridotti. Stirpe guerriera, la nostra, che aveva conosciuto gloria e ricchezza, conquistando castelli e distese infinite di terra. Ma gli uomini, ingrati, ci chiamavano Condottieri quando annientavamo i loro nemici, e Tiranni quando esigevamo il prezzo della vittoria.”
La mia edizione Feltrinelli è, ovviamente, esaurita da tempo. Recentemente è però uscita una ristampa con la Gargoyle, arricchita da altri due racconti e da un’introduzione di Tullio Avoledo.
Avoledo, altro scrittore che apprezzo moltissimo. Ma magari di lui ne parliamo un’altra volta…
brava! anche ottimo lavoro di documentazione! :) Antonella
RispondiEliminaBella recensione e tenero miscuglio di chicchi di vita (la tua) e notizie di letteratura "vampiresca". Brava, Francesca.
RispondiEliminaBarbara