i racconti della domenica |
Sono un pesciolino, che lentamente perlustra, zigzagando, il fondale marino. La profondità assorbe la luce e la sbriciola nel pulviscolo dorato che mi scivola addosso. I rumori giungono attutiti, quasi provenissero da una dimensione parallela. Il tutum del cuore è una colata di velluto, che si espande nelle orecchie e nella gola.
Bizzarra questa associazione soffitta-fondale marino. Cosa avranno mai in comune? La soffitta sta in alto, mentre il fondale marino sta in basso ed è buio. Però entrambi custodiscono tesori.
Mi fermo un attimo per guardarmi attorno. Appesi alle pareti ci sono un crocifisso, il quadro con la Madonna dal manto color nontiscordardime, regalo della prima comunione, e una foto incorniciata di parenti seppiati, inghiottiti da un passato ormai dietro l'angolo. Mi avvicino al piratesco baule di legno, custode discreto del corredo nuziale di mia madre, trama e ordito della sua vita coniugale. Lo ricopre la tovaglia dei pranzi domenicali della mia infanzia. Accanto c'è lo scatolone zeppo di libri e quaderni di mio padre. Lo apro. Incastrato di taglio tra La luna e i falò e Un giorno di fuoco, la costa rossa che sembra una ferita, riconosco il suo quaderno di poesie. Lo sfilo e me lo rigiro tra le mani. Certi ricordi hanno la consistenza di un petalo di rosa. Lo apro a caso.
Abbiamo guardato la verità negli occhi cangianti.
È l'ultimo verso di una poesia datata 5 maggio 1990, qualche mese dopo il ritorno di Mario da Parigi. Anche lui aveva capito.
Dal lucernario del tetto cola un fiotto di luce, giallo come un covone di grano, a illuminare alla stregua di un riflettore un basso sgabello di ferro. Sembra un mini palcoscenico, forse è per le recite dei tarli. L'ultima volta che ci sono salita sopra, per vedere il mare dalla finestrella, avevo diciannove anni. Ne ricordo ancora il blu struggente, che il silenzio degli addii rendeva ancora più intenso.
A novembre di quell'anno iniziai l'università e mi trasferii a Bologna. All'epoca tornavo a casa nei fine settimana. In quei giorni, dopo cena, mio padre mi faceva andare nel suo studio per leggermi le ultime poesie che aveva scritto, o quelle vecchie se, come diceva sorridendo, la signora ispirazione non gli aveva fatto visita. Mia madre accettava di buon grado l'esclusione da quel rito. Dopo la morte di mio padre le chiesi se non si fosse mai sentita offesa dal fatto che rifiutasse di farle leggere le sue poesie.
«E perché? - rispose - Tanto gliele leggevo di nascosto, lui lo sapeva».
Ho amato il loro quieto viversi accanto, imbastito su di un sentimento che con il passare degli anni aveva finito per cristallizzarsi in gesti sobri, essenziali. Era un amore che mi dava sicurezza, anche se ciò che allora desideravo per me non gli somigliava per niente. Io volevo la passione dei romanzi, quella cosa che non ti fa dormire la notte e che di giorno ti fa vivere in uno stato di ansia continuo.
Io volevo Mario.
Lo conobbi dopo la laurea, quando entrai come praticante in uno studio legale associato di Bologna. Lui era il socio più giovane. Dopo un anno di fidanzamento e alcuni tentativi suoi di lasciarmi perché, secondo lui, eravamo troppo diversi, rimasi banalmente incinta. Decidemmo pertanto di sposarci.
Nel corso degli anni ho affidato a questa soffitta ciò che non doveva far parte della mia vita. L'ho lasciato qui e me ne sono andata, senza voltarmi indietro. Per sottrazione mi sono alleggerita il più possibile. Ci sono riuscita? In parte sì, o almeno l'ho creduto e così ho vissuto. Tutto sommato ho avuto una buona vita.
Ma adesso sono tornata. Se ne sono andati tutti: mio padre, mia madre, Mario. Ma tu no, tu sei ancora qui che aspetti. Marco si arrabbia quando dico che sono rimasta sola, si offende. Come faccio a spiegargli che esiste un pezzo di vita prima di lui, e che è in quel pezzo di vita che sono rimasta sola, è lì il vuoto che chi è venuto dopo non potrà mai riempire. Lui e mia nuora hanno cercato di dissuadermi dall'abbandonare Bologna per tornare a vivere qui. Non ho provato a spiegare, tanto non sarebbe servito a niente.
Da una nicchia nel muro poco profonda sporge una scatola di latta, una di quelle vecchie scatole per biscotti. Con un lembo della tovaglia che ricopre il baule tolgo la patina di polvere che si è depositata sul coperchio, ed ecco riaffiorare i girasoli .
So cosa contiene: vecchie foto, cartoline, lettere. Mi siedo sullo sgabello sotto il lucernario, per questa volta ruberò la scena ai tarli. Appoggio la scatola sulle ginocchia e la apro.
La lettera è lì, sopra le altre, a fare da argine al passato, a mettere in discussione sentimenti, ricordi. Tutto ciò che cercherà di affiorare alla memoria dovrà passare attraverso questa lettera ed essere riscritto. Non l'ho mai letta ma ne conosco ugualmente il contenuto. Quando la presi in mano la prima volta ciò che mi colpì fu il peso. È una lettera pesante, come sanno essere pesanti i sensi di colpa altrui quando li lasciamo fuori dalla nostra storia.
Sotto la lettera c'è una fotografia. Riccioli neri spuntano da sotto un basco rosso, occhi acquamarina e un sorriso luminoso irradiano una gioia che chiede soltanto di essere condivisa. Giro la fotografia:
“Ciao, sister.
Parigi è una favola. Ho trovato un appartamento bonsai, ricavato in una soffitta persino più bella della tua. Domani inizio a lavorare, sono emozionata e felice. Spero di rivederti presto.
Un abbraccio.
Silvia”
(*) Strani giorni ci hanno colti
Strani giorni ci hanno raggiunti
Distruggeranno le nostre gioie casuali
Dobbiamo continuare a giocare o trovarci un'altra città
Sciolgo il nodo del nastro rosso che lega insieme alcune cartoline di Parigi:
“Aprile, 1980
Ciao, sister.
Tutto procede a gonfie vele. Il lavoro mi piace molto e ho conosciuto persone fantastiche. Ti mando una foto dei miei nuovi amici. Sai, gli ho parlato di te, non vedono l'ora di conoscerti.
Un abbraccio.
Silvia
P.S.
Ma che aspetti a raggiungermi?”
“Natale, 1980
Buon Natale, sister.
Ti rifaccio la domanda: ma che aspetti a raggiungermi? A proposito, quel tale Mario di cui mi parli... c'entra forse il cuore? Fammi saper al più presto!
Ti voglio bene.
Silvia”
“Marzo, 1981
Ciao, sister.
Allora è una cosa seria! Quindi hai deciso di rimanere a Bologna per amore. Beh, non sarà Parigi ma è sempre meglio del natio paesello. Non vedo l'ora di conoscere questo uomo delle meraviglie.
A presto.
Silvia”
“Gennaio , 1982
Ciao, Elga.
Mi piacerebbe moltissimo poter essere presente al tuo matrimonio, ma in quel periodo sarò a Londra per lavoro. Mandami tante fotografie, mi raccomando.
Un abbraccio.
Silvia”
Non ti ho più rivista, anche se per alcuni anni abbiamo continuato a scriverci con una certa frequenza. Siamo cresciute insieme tu e io: stesso quartiere, stesse scuole, stessi amici, stessi sogni. Tu li hai realizzati mentre io... Beh, io ho realizzato i miei. Delle due sono sempre stata quella meno convinta di andare a vivere a Parigi, poi l'incontro con Mario ha fatto prendere alla mia vita un'altra direzione. Quella che volevo.
Quando Mario, in occasione di un convegno, dovette recarsi a Parigi, fui io a metterlo in contatto con te. Lui non aveva una gran voglia di conoscerti, era un po' geloso della nostra amicizia, ma assecondò il mio desiderio. Forse pensò che conoscendoti gli sarebbe passata quella specie di paranoia. Terminato il convegno, decise di regalarsi qualche giorno di ferie per visitare Parigi. Fui d'accordo, ultimamente aveva lavorato tanto e un po' di riposo se lo meritava, anche se mi dispiaceva non poterlo raggiungere. Marco, a causa della pertosse, aveva perso parecchi giorni di scuola e non me la sentii di lasciarlo con i nonni.
Al suo ritorno capii subito cos'era successo. Capii e feci finta di niente.
Qualche mese dopo arrivò quest'ultima cartolina:
“Ciao, Elga.
Quando ti stancherai della tua solita vita, qui c'è sempre un mondo che ti aspetta.
Ti voglio bene, non dimenticarlo mai.
Silvia.”
Strani occhi riempiono strane camere
Voci che segnaleranno la loro stanca fine
L’hostess sogghigna
I suoi ospiti dormono dopo aver peccato
Ascoltami parlare di peccato e capirai che è questo
Usai il silenzio come risposta e di te non seppi più nulla sino a questa lettera, arrivata circa otto anni fa, qualche mese dopo la morte di Mario.
Sì, perché io e Mario continuammo la nostra vita insieme. Fui sempre molto attenta a non farmi scalfire dal suo sguardo triste, a non farmi interrogare dai suoi silenzi. La nostra vita continuò come se niente fosse successo. Quando Mario si ammalò gli rimasi vicina sino alla fine, ma non gli permisi mai di dire la verità.
Apro la lettera.
“Ciao, Elga.
Quindi è arrivato anche questo momento. Chissà in quale stagione mi leggerai. Mentre ti scrivo è inverno, fuori nevica e Parigi assomiglia a una qualunque città.
Stai tranquilla, non ti scrivo per liberarmi dai sensi di colpa. Ritengo che una delle cose più scorrette sia costringere qualcuno, in nome di una presunta onestà, a farsi carico della nostra coscienza. L'ultima volta ti ho scritto che ti voglio bene, ti assicuro che ho detto la verità, ma tu questo lo sai da sempre.
Nonostante ciò ti ho fatto del male. Come si può amare qualcuno e fargli del male consapevolmente? Non lo so, ma l'ho fatto. Ho voluto vivere per un po' la tua vita, prendere il tuo posto. In quei momenti ho cercato di costruirmi dei rancori, in fondo anche tu mi avevi tradita, avevi tradito i nostri sogni lasciandomi sola. E per chi, poi? Per un uomo che non valeva certo tutto quello al quale avevi rinunciato. Ho finto con me stessa di odiarti. Io e Mario dopo aver fatto l'amore parlavamo di te. Mi confessò che non ti aveva mai amata, che ti trovava banale, noiosa. Quello che mi raccontava mi faceva sentire forte.
Se ne andò dicendo che si sarebbe trattenuto il tempo necessario per porre fine alla vostra storia. Sapevo che non l'avrei più rivisto, tu non gli avresti mai permesso di dirtelo. Sapevo che non lo avresti fatto uscire dalla tua vita. Immagino che non gli avrai mai fatto domande e che sarai stata molto abile a fare finta di nulla, a escludere dal tuo mondo quella sua nuova possibilità di vita.
E quando ci viene negata una vita che succede? Forse è così che si inizia a morire, o almeno è stato così per lui. Ma tu sapevi anche questo e l'hai guardato morire giorno dopo giorno.
Noi sapevamo che sarebbe andata a finire così, lui no. D'altra parte era lui l'intruso.
So che non riesci a odiarmi e quando non sarai più costretta a fingere con te stessa allora capirai, anche se non c'è niente da capire. So che tra noi due non è ancora finita. I buoni sentimenti hanno una faccia nascosta, somiglia all'immagine di noi che cogliamo per caso nel vetro di una macchina o in una vetrina, quella in cui non ci riconosciamo e che sembra appartenere a qualcun altro. Ma non è vero: siamo noi.
Tra qualche settimana sarà primavera e Parigi di nuovo bellissima.
Ti voglio bene e ti aspetto.
Silvia”
Hai ragione, Silvia, ho continuato la vita che avevo scelto di vivere. Forse l'ho vissuta da sola? Può darsi, ma adesso non ha più molta importanza. Non sono stata capace di odiarti. Eppure avrei avuto dei validi motivi per farlo. Ma come non esistono motivi per amare perché si ama e basta così, forse, non ne esistono per odiare.
Mi chiudo la porta della soffitta alle spalle. Rientro in casa e mi dirigo in quello che è stato lo studio di mio padre. Mi siedo alla scrivania e cerco carta e penna.
“Ciao, Silvia.
Un'altra primavera è arrivata, forse è arrivato anche il momento che io veda Parigi.
Ti voglio bene.
Elga”
Strani giorni ci hanno colti E attraverso le loro strane ore Indugiamo da soli Corpi confusi Ricordi abusati Come fuggiamo dal giorno Verso una strana notte di pietra(*) Strange Days - The Doors |
che dire...molto, molto intenso. Complimenti a chi sa mettere la penna al servizio del cuore.
RispondiEliminaBarbara, l'ho letto tutto d'un fiato, non sono riuscita a fermarmi.
RispondiEliminaBella la storia, che va in crescendo e molto efficace l'uso degli aggettivi che nella prima parte creano molto bene l'atmosfera. Interessante anche l'uso delle lettere, che sono un espediente letterario che ti piace, come vedo, e torna nei tuoi racconti, alternate al testo della canzone.
Quello che mi piace di più di questo racconto, è il contrasto fra l’intensità emotiva del contenuto e la leggerezza della narrazione. Il linguaggio sembra un ricamo: ci sono queste immagini a volte delicate, a volte ironiche, semplici ma assolutamente prive di banalità. Sembra di vederla, quella luce soffusa che tutto circonda, ammorbidendone i contorni. Ma, in questo piccolo universo dai colori raffinati, i sentimenti sono potenti. La nostalgia per i genitori molto amati. La tenerezza verso il figlio Marco e quel pizzico di compiacimento, che hanno tutte le mamme, quando sentono che i figli si preoccupano un po’ per loro. L’amore non pacificato verso il marito. L’amarezza del tradimento. Il superamento dello stesso che diventa occasione di rinascita.
RispondiEliminaCredo che se tu avessi usato un tono più enfatico, nella narrazione, avresti attenuato questa potenza. Invece la tua scelta è stata azzeccatissima.
Mi permetto solo un’osservazione. Mi piace molto la figura del padre della protagonista e trovo delle potenzialità nella grande complicità che li lega. Non lasciarlo cadere… e tienilo presente per eventuali racconti. Sono sicura che ne sapresti trarre degli spunti interessantissimi.