L’ultima cosa che
aveva visto era stata un bianco con una giacca di cuoio che gli veniva incontro
sorridendo. Poi c’era stato il colpo, una luce violenta dentro agli occhi e
subito dopo il buio. Si era svegliato con le mani e i piedi legati, seduto su
una sedia, gli occhi bendati e qualcosa di ruvido, forse una corda, intorno al
collo.
Intorno a lui odore
di erba e letame. Era in una stalla? Non si sentivano cavalli nitrire, né
mucche né altri animali. Solo il cigolio di una banderuola segnavento e,
lontano, l’abbaiare di un cane. Poi era arrivata la voce.
“Ci siamo svegliati,
negro?”
“Dove sono? Che è
successo?”
“Sei nella tana del
lupo, agnellino. E stai per essere mangiato.”
La voce gli arrivava
sia da destra che da sinistra, alternativamente. Il klansman doveva essere
vicino. Forse gli girava intorno. Ma avvertiva i suoi passi soffocati, come se
camminasse sulla paglia. Di certo gli arrivava il suo odore. Un misto di acqua
di colonia e sudore, una specie di fetore dolce. I bianchi hanno un odore che
li riconosceresti fra mille, come se la carne gli si marcisse addosso. Ebbe un
conato ma si sforzò di trattenerlo.
“Cosa ho fatto? Cosa
volete da me?”
“Quello che hai
fatto lo sai: sei negro. Quanto a quello che vogliamo da te… risposte. Vogliamo
solo farti delle domande. E tu risponderai, se ci tieni alla pelle.”
“La conosco la legge
del Klan. Non mi lascerete andare.”
“Oh… tu conosci la
legge del Klan.” La voce gli arrivava ora dall’orecchio sinistro. Il klansman
doveva essersi fermato accanto a lui.
“Tu conosci troppe
cose, negro. E ne vai anche raccontando di più. Cosa sei? Eh? Dimmi cosa sei.
Sei un fottuto stregone africano? Fai le magie, eh, negro?”
“Non sono uno stregone.”
“E allora chi sei?
Sei una chiromante? Leggi il futuro nella palla di vetro? Chi ti suggerisce
tutte le sciocchezze che dici? Chi te le mette in testa?”
“Io… io vedo delle
cose”.
“Vedi delle cose? E
dove le vedi? Perché non lo racconti al vecchio Curtis?”
“Le vedo qui. Nella
mia testa. Chiudo gli occhi e…”
“Nella tua testa c’è
solo merda, negro!” La voce era un urlo che gli arrivava direttamente in
faccia. Gli spruzzi di saliva si posavano sulle sue guance e si mescolavano al
sudore. Aveva la vescica piena e la voglia di vomitare si era fatta impellente.
Non sarebbe mai uscito vivo di lì.
“Nella testa di
tutti i negri c’è merda!”
Sentiva i passi
soffocati dalla paglia allontanarsi e poi riavvicinarsi. Il klansman aveva il
respiro pesante. Poi parve riacquistare una certa calma.
“La tua colpa,
negro, è che quella merda non te la tieni per te. Vai spargendola in giro. E ci
offendi, con la tua merda. Offendi l’America stessa. Cosa è questa storia guerra?
Eh? Una guerra dove l’America combatterà dalla stessa parte dei russi. Quelli
sono comunisti, negro. L’America non combatte con i comunisti. L’America li
annienta”
“Non è una storia.
L’ho visto. Una guerra, gente che moriva, soldati. Posti lontani, là, oltre il
mare. Uomini con la pelle gialla. E un’esplosione così forte che faceva tremare
la terra.”
“Tu sei pazzo,
negro.” La voce era un sibilo.
“Sei pazzo e
vorresti far impazzire anche noi. Ma non credere che ti lasceremo fare. Lo sai
cosa dice la Legge del Klan, negro? Dice noi klansmen dobbiamo far rispettare
la supremazia dei bianchi. E per farlo dobbiamo annullare voi negri.
Schiacciarvi. Voi siete la feccia dell’America. Siete come una malattia. Ma noi
abbiamo la medicina. Vi appendermo agli alberi di ogni contea. Ogni quercia di
ogni stato avrà il suo bel raccolto di negri penzolanti.”
“Non siamo feccia!”
La nausea si era trasformata in rabbia. Morire per morire, almeno morire con la
verità in bocca, questo gli aveva sempre detto suo padre. E se al klansman la
verità non piaceva, peggio per lui.
“Non siamo feccia. E
diventeremo parte di questa nazione. Combatteremo anche noi questa guerra e ci
faremo onore. Impareremo a leggere, a scrivere, studieremo. Diventeremo
avvocati, medici, insegneremo nelle scuole. Diventeremo poliziotti. Professori.
Generali.”
“Avvocati. Medici.
Niente di meno. Addirittura generali.” Il klansman era davanti a lui. Lo
sentiva muoversi. Sentiva il suo odore. Lo sfotteva. Non gli credeva. Rideva di
lui.
“Addirittura
Generali, negro. Cosa altro? Eh? Cosa altro diventerete, voi negri?”
Al diavolo klansman,
pensò. La avrai la verità che ti meriti.
Lo sparo rimbombò
nella notte, facendo abbaiare i cani e nitrire i cavalli nell’aia. L’uomo con
la giacca di cuoio spalancò la porta della stalla ed entrò correndo.
“Curtis! Curtis,
stai bene? Che è successo?”
Il klansman era
seduto sopra un barile. Con la destra teneva stretto a sé il fucile. Un filo di
fumo usciva dalla canna, appena percettibile nella penombra.
“Ma… gli hai
sparato? Dovevamo portarlo alla riunione, stanotte. Dovevamo portarlo integro,
ricordi. Ci avremmo pensato dopo a… a sistemarlo. Gli altri avranno già
iniziato ad arrivare. E adesso cosa gli raccontiamo?”
Il klansman si era
tolto il cappuccio. Aveva la testa rotonda, il viso grassoccio dalle guance
rosate e cadenti. Un vecchio neonato. Si passava una mano sui pochi capelli,
che il sudore aveva incollato al cranio. Lo sguardo perso davanti a sé, come
cercasse qualcosa che non riusciva a trovare.
“Non ce l’ho fatta,
John. Non ho potuto resistere. Gli altri.. gli altri capiranno. Non ho potuto
fare altro. La Legge del Klan... gli altri capiranno.”
“Ma… ma che è
successo?”
“Ha detto una cosa…
mi ha fatto perdere il controllo. Era… troppo. La legge... La legge dice che
dobbiamo stimare gli Stati Uniti più di ogni altra cosa. Le sue istituzioni. E
io… io le ho dovute difendere. Ho dovuto difendere l’onore del nostro
Presidente”.
“Non capisco,
Curtis. Ma che ha detto quel maledetto negro?”
“Lui… lui parlava
del futuro. Di negri che diventeranno avvocati, e generali… e io non gli
credevo, non gli ho mai creduto per un solo attimo. Ma poi è andato oltre e io…
non ho potuto fare altro.”
“Ma che cazzo ti ha
detto, si può sapere?”
Il klansman spostò
lo sguardo dal nulla e lo piantò in quello dell’uomo davanti a lui. Aveva le
pupille dilatate e grosse lacrime che gli scedevano lungo le guance.
“Quando ha detto Presidente,
John. Quando ha detto ‘Presidente degli Stati Uniti. E’ stato il quel momento,
che ho dovuto sparare.”
Molto, molto carino, Francesca.
RispondiEliminaMolto, ma molto, ma molto bello. Carla.
RispondiEliminaVeramente complimenti, Francesca, un racconto avvincente e costruito con tanta maestria!
RispondiElimina(PS: ma perché non facciamo anche quest'anno un'antologia? avete scritto dei racconti così belli! Pensateci, io durante l'estate sono disponibile, se volete...)
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RispondiEliminabel racconto, Francesca! complimenti
RispondiEliminamanuela