(L'usage du monde)
di Nicolas Bouvier
Jean Starobinski, nella prefazione al romanzo, offre questa "scheda segnaletica" di Nicolas Bouvier (Ginevra 1929-1998): «Vocazione: viaggiatore. Professione: fotografo e iconografo, cioè raccoglitore di immagini. E come legame fra tutto questo: scrittore. [...] Bisognerebbe subito aggiungere che tutti questi lavori li ha fatti per vivere, in ogni senso del termine, a cominciare dal più ampio. Quindi per far vibrare e consumare un'esistenza».
«È la contemplazione silenziosa degli atlanti, a pancia in giù su un tappeto, tra i dieci e i tredici anni, che dà la voglia di piantar tutto. Pensate a regioni come il Banato, il Caspio, il Kashmir, alle musiche che vi risuonano, agli sguardi che vi si incrociano, alle idee che vi aspettano...
Quando il desiderio resiste anche dopo i primi attacchi del buon senso, si inventano ragioni. E ne trovate, ma non valgono niente. La verità è che non sapete chiamare quello che vi spinge. Qualcosa in voi cresce e molla gli ormeggi, fino al giorno in cui, non troppo sicuri, partite davvero. Un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrare che basta a se stesso. Pensate di andare a fare un viaggio, ma subito è il viaggio che vi fa, o vi disfa».Lo scrittore ginevrino, spiega così la passione che lo spingerà ad andare incontro al mondo e, successivamente, a raccontare il viaggio fatto negli anni cinquanta a bordo di una Fiat Topolino, insieme all'amico pittore Thierry Vernet, i cui bellissimi disegni completano il libro.
Il viaggio inizia nei Balcani, per arrivare sino al Giappone, ma il racconto si ferma all'Afghanistan. Jean Starobinski, sempre nella prefazione, scrive di Bouvier: «Un pungolo delizioso e doloroso lo ha spinto a raggiungere i "viaggiatori straordinari" evocati da Baudelaire, "i soli che partono per il gusto per partire", inebriandosi "di spazio e di luce" per trarne "un amaro sapere"».
Il libro è stato scritto alcuni anni dopo il viaggio, per lasciare tempo al materiale raccolto di decantare. In questo modo, Bouvier, è riuscito a restituire al lettore le esperienze vissute nella loro essenzialità attraverso immagini originali, da giocatore d'azzardo.
L'atteggiamento dello scrittore non è quello dell'occidentale che cerca di adattare il mondo a logori schemi precostituiti. Bouvier, non procede per accumulazione, piuttosto cerca di fare il vuoto dentro di sé per fare entrare il mondo che incontra così com'è, nel bene e nel male.
«Il viaggio fornisce occasioni per darsi una mossa, ma non – come si potrebbe credere – la libertà. Esso piuttosto fa provare una specie di riduzione; privato del suo contesto abituale, spogliato delle sue abitudini come di un voluminoso imballaggio, il viaggiatore si trova ridotto a più umili proporzioni. Più aperto anche alla curiosità, all'intuizione, al colpo di fulmine».
Sarajevo, Istanbul (Costantinopoli), Tabriz, Isfahan, Teheran, Kabul, sono alcuni dei luoghi che attraversa. Personalmente li ho conosciuti soltanto attraverso i tristi bollettini di guerra di questi ultimi anni, nonché gli stereotipi spacciati dalla televisione, pertanto l'assenza di cliché di questo libro mi ha permesso di vederli in un modo nuovo, attraverso la descrizione incantata di culture antichissime e meravigliose, come forse oggi non esistono più.
Una delle idee centrali del libro è che il mondo si consuma, si usura, e ciò che rimane è la bellezza, ed è quello che il libro offre al lettore.
È un romanzo molto attuale, soprattutto quando parla dei difficili rapporti tra occidente e oriente. Già allora erano attivi interventi americani in Iran per "civilizzare" (detto all'occidentale) il paese. A questo proposito, Bouvier, pur ammirando gli sforzi delle singole persone incontrate, scrive degli americani: «Sappiamo che questo contribuente è il più generoso del mondo. Sappiamo anche che è spesso male informato, che vuole che le cose siano fatte a modo suo, e che apprezza i risultati che lusingano il suo sentimentalismo. Lo si potrà persuadere senza difficoltà che si tiene in scacco il comunismo costruendo delle scuole simili a quelle di cui egli conserva un così piacevole ricordo. Sarà più difficile convincerlo che ciò che va bene a casa sua non può andare altrove; che l'Iran, questo vecchio aristocratico che ha conosciuto tutto della vita... e ha dimenticato molto, è allergico ai rimedi ordinari e reclama un trattamento speciale. I regali non sono sempre facili da fare quando i "bambini" sono cinquemila anni più vecchi di Santa Claus».
Se l'occidente avesse guardato all'oriente con gli occhi di Nicolas Bouvier oggi, forse, il mondo sarebbe migliore.
Il viaggio, quindi, come esigenza vitale, come scoperta, come incontro con l'altro diverso da sé e proprio per questo importante, senza pregiudizi e paure.
Alla fine del libro, Bouvier, scrive: «Come un'acqua, il mondo filtra attraverso di noi, ci scorre addosso, e per un certo tempo ci presta i suoi colori. Poi si ritira, e ci rimette davanti al vuoto che ognuno porta in sé, davanti a quella specie d'insufficienza centrale dell'anima che in ogni modo bisogna imparare a costeggiare, a combattere e che, paradossalmente, è il più sicuro dei nostri motori».
Barbara
Bellissima questa frase sul viaggio: "Esso piuttosto fa provare una specie di riduzione; privato del suo contesto abituale, spogliato delle sue abitudini come di un voluminoso imballaggio, il viaggiatore si trova ridotto a più umili proporzioni".
RispondiEliminaUna visione che mi fa pensare. Davvero molto interessante.
manuela
Le citazioni che hai riportato sono veramente intense. Viene davvero voglia di leggerlo,questo libro.
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