Vi propongo questo articolo tratto dall'online magazine dell'Università di Urbino (di tanto in tanto mi prende la nostalgia e torno a visitarne il sito...). E' un articolo lungo e complesso, ma secondo me vale la pena di leggerlo.
Delle sabbie della lingua unitaria
di Tiziana Mattioli
Mi si chiede di intervenire in tempi drastici per il nostro magazine sulla questione dell’unità linguistica. Mi chiedo intanto se ho davvero qualcosa da dire, e subito mi si propone l’immagine di una comoda poltrona davanti alla tv, e della badante di mia madre che non beve nemmeno il caffè senza il telecomando in mano, ipnotizzata da tutto quel che le arriva. Anche la nostra lingua si è seduta in poltrona (in quella poltrona), ed è in gran parte sotto ipnosi, per quanto unificata. Perché appunto è capitato che l’eccesso di cura ci abbia intossicati, e l’estrazione della parola dalla sua più che astratta codificazione ha cancellato ciò che nella lingua è corpo.
La lingua è “la pelle”, diceva Roland Barthes: una grana, dunque, emozionale ed emozionante. Una geografia e una speleologia della sensazione. Una fisicità. E infatti chi questa fisicità la usa (penso al Benigni del commento all’Inno Nazionale – compensi a parte -) e rotola le parole sulle papille derivandone, per il sapore, esaltazioni del movimento, parla una lingua che più non si sa. E colpisce. Certo, è vero, parla a tutti, per diversi gradi, e per quella base comune di unificazione che da tempo ormai è stata riconosciuta come esito fortunatamente raggiunto dal mezzo televisivo (in questi giorni peraltro posto in evidenza da uno spot che tuttavia serve ad incrementare gli introiti del canone). Sicché insomma la retrocessione dei dialetti a favore di una universale reciprocità di parola sembra una conquista (e lo è anche, direbbe Verga, vista a distanza. Un progresso, non senza vittime). Così i dialetti sono andati a rifugiarsi in zone alte di cultura: raffinate e a volte inaccessibili. “Irsute”, come disse Contini del santarcangiolese di Tonino Guerra. Per compenso la lingua italiana, non solo il cosiddetto parlato-parlato, ma il parlato-scritto e mi piacerebbe dire pensato, si è adeguato al basso (non corporeo). A una levigata, scivolosa e strisciante imperturbabilità, se nessuno più si indigna per questa lingua di plastica masticata ogni giorno (che so?) dai politici di qualunque colore, spesso digiuni, quanto ad ars oratoria ma ben nutriti sulla funzione dell’immagine. Sicché ha ragione Giancarlo Majorino (La dittatura dell’ignoranza) quando dice che qualcosa si è rovesciato: prima le parole erano capaci di suscitare immagini (mondi immaginari e reali ad un tempo), ora sono le immagini che suscitano le parole. Se si spegne l’immagine, si spegne anche la parola. Tutto si cancella, senza memoria. A parte la parola inquinata “da asservimenti, da esigenze utilitaristiche, da groppi di dipendenza”, per il suo martellare in pubblicità d’ogni natura. Consumiamo tutto, abbiamo consumato anche la lingua nonostante la meravigliosa acrobazia che dai tempi di Dante a noi si è fatta per possederlo, questo “parlar materno”. Ci vorrebbe forse un nuovo medioevo, linguisticamente parlando, ovvero la convinzione di una possibilità di ri-creazione continua fatta sul presente. Questo processo, per certi aspetti materico e spurio, andrebbe costantemente sperimentato. E se la realtà è uno “gnommero” gaddiano, gnommero sia anche la parola: plurilingue, stratificata, inventiva e persino rugginosa. Di quella ruggine che amava il Foscolo per dare sferza alla scrittura. Non so da dove si potrebbe cominciare. Forse da buone letture, certo (ma gli italiani non leggono!). Forse dalla televisione, se si affacciasse magari il volto rugoso e primordiale di Giuseppe Ungaretti. Se si affacciasse un poeta, non alle tre di notte. Forse dalla scuola, se si insistesse sul lessico sin dalle prime classi, attraverso conquiste percettive, magari. E magari qualche volta usando la penna come prolungamento del corpo piuttosto che la sola lavagna touch screen. Forse anche dall’Università, con un salto mortale all’indietro, recuperando senso critico e quindi moralità (e libertà morale, per non rimanere inerti al nostro tempo). Sì, insomma: l’unità linguistica, se fosse stata unità morale sarebbe stata davvero una incommensurabile conquista. Così, per come ci troviamo oggi, l’abito si è ristretto e ci sentiamo come imbalsamati. Aspettiamo uno Schliemann che ci tolga dalla sabbia, magari un po’ impolverati, ma linguisticamente vivi.
E' un articolo molto bello e ricco di spunti interessanti, non so da dove cominciare.
RispondiEliminaAd esempio: «Sicché insomma la retrocessione dei dialetti a favore di una universale reciprocità di parola sembra una conquista (e lo è anche, direbbe Verga, vista a distanza. Un progresso, non senza vittime). Così i dialetti sono andati a rifugiarsi in zone alte di cultura: raffinate e a volte inaccessibili. “Irsute”, come disse Contini del santarcangiolese di Tonino Guerra. Per compenso la lingua italiana, non solo il cosiddetto parlato-parlato, ma il parlato-scritto e mi piacerebbe dire pensato, si è adeguato al basso (non corporeo)».
E' vero che la lingua ha perso di fisicità, o almeno questa è la sensazione. Se è vero che inizialmente le parole erano tutt'uno con ciò che rappresentavano, col tempo quella fusione è venuta meno e le parole si sono impoverite, scivolando verso l'astrazione.
Sicuramente dirò una banalità ma tra i compiti dello scrittore c'è anche quello di ricostituire questa unità, attraverso la ricerca certosina della parola "giusta".
Mah. Forse sono poco attenta, ma a me non sembra che la lingua italiana sia di plastica, che non susciti immagini, che sia spenta.
RispondiEliminaC'è un lessico "povero", questo è vero. Si tende a usare sempre le stesse parole, c'è poca sperimentazione anche nel linguaggio quotidiano. C'è una sorta di pigrizia, forse.
Poi non sono per niente d'accordo riguardo il dialetto che oggi mi sembra sia considerato una sorta di panacea universale, di lingua perfetta. Innanzitutto, per quel poco che ne so, i dialetti sono soprattutto orali e già questo limita non di poco la questione. Al massimo vengono usati per le poesie, ma non mi risulta siano stati scritti romanzi in dialetto. Certamente Gadda o altri usavano una lingua propria che non era il dialetto. (segue)
Poi vorrei dire che questa sorta di adorazione attuale per il dialetto non tiene conto di tanti altri aspetti che butto lì alla rinfusa. Il romagnolo, ad esempio, non credo si possa considerare una vera lingua come, ad esempio, il veneto. E quindi bisogna distinguere tra dialetto e dialetto.
RispondiEliminaSempre pensando alla Romagna, nella nostra zona il dialetto era fino a poco tempo fa la lingua delle classi più povere, spesso di persone che non sapevano leggere né scrivere. Penso che parlare di dialetto senza contestualizzarlo storicamente, geograficamente e socialmente sia un po' limitante.
E poi, l'ho già detto anche in un altro post (mi sembra), io sono per la lingua "pura", per l'italiano colto, specie nella scrittura. Trovo molto più appagante e affascinante la lettura di un testo scritto in un italiano "ricco", originale, preciso, che un testo in cui non si cercano i termini più appropriati in lingua, ma si inseriscono frasi o parole dialettali.
scusate se ho spezzato il post ma tutto intero non me lo prendeva, così ho provato a spezzarlo e ha funzionato...
RispondiEliminaBella questa disquisizione sulla lingua,sulla quale oggi, credo, si riflette troppo poco, mentre nei secoli passati gli scrittori si sono sempre chiesti, anche con grandi discussioni, quale lingua utilizzare e perché.
RispondiEliminaMi verrebbe da dire che, poiché non si può separare la lingua dal contenuto che esprime, forse la povertà linguistica odierna rappresenta anche una certa povertà di pensiero. Allo stesso modo, l'uso del dialetto ha senso se giustificato dal contenuto che esprime; con questo intendo non solo che si possa usare il dialetto per far parlare in un romanzo le classi più povere, ma anche per esprimere una certa concezione della letteratura (Verga insegna). Naturalmente ha ragione Manuela quando dice che la lingua di Gadda, e aggiungerei anche quella di Verga, non sono il dialetto tout cours, ma d'altra parte quale scrittore vero non inventa una "sua" lingua?
Mi stimola molto la chiusura del commento di Barbara, che apre ad un'altra riflessione: qual è la funzione dello scrittore e della letteratura oggi?