Benvenuti in Letteratura e dintorni!

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Università aperta Giulietta Masina e Federico Fellini ha sede a Rimini e si occupa da anni di educazione permamente per un pubblico vasto e variegato per età, inclinazioni e interessi. Questo blog è dedicato in particolare a tutti coloro che frequentano, hanno frequentato o vorrebbero frequentare i nostri corsi di scrittura ma anche a tutti coloro che amano leggere, scrivere, confrontarsi su argomenti letterari.


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sabato 22 gennaio 2011

Anche a Leopardi tirarono le orecchie (suggerito da Barbara)

Carissime compagne di carta e penna, facciamoci coraggio: anche a Leopardi tirarono le orecchie.

Da "Gianfranco Contini - Letteratura dell'Italia unita 1861-1968" - ed. Sansoni.

IL SABATO

"Il discorso, di cui questo è il nucleo, si fonda su una visita a Recanati (il cui paesaggio è interpretato pascolianamente, si giudichi di quelle nuvole da Myricae sull'orizzonte); e svolge l'obiezione che, per quanto è degli oggetti poetici, il Leopardi si attenga ancora alla genericità della tradizione letteraria e non ne persegua la naturale realtà. Testo adottato è il grande idillio Il sabato del villaggio, al cui inizio «La donzelletta vien dalla campagna... Col suo fascio dell'erba; e reca in mano Un mazzolin di rose e viole» (tacitamente corrette dal Pascoli nelle rose e viole a ciocche di Digitale purpurea).

*****
[...] «Donzellette» non vidi dalla campagna col loro fascio d'erba: non ancora la lupinella insanguinava i campi. Avrei voluto vedere il loro mazzolino, se era proprio «di rose e di viole»! Rose e viole nello stesso mazzolino campestre d'una villanella, mi pare che il Leopardi non le abbia potute vedere. A questa, viole di marzo, a quella rose di maggio, sì, poteva; ma di avere già vedute le une in mano alla donzelletta, ora che vedeva le altre, il Poeta non doveva qui ricordarsi. Perché il Poeta qui rappresenta a noi cose vedute e udite in un giorno, anzi in un'ora; e bene le rappresenta, come non solevano i poeti italiani del suo tempo e dei tempi addietro. E come queste, così altre; e in ciò è la sua virtù principale e, aggiungerei se non fosse ozioso e noioso a proposito di poesia parlar di gloria, la principale sua gloria. Vedere e udire: altro non deve il poeta. Il poeta è l'arpa che un soffio anima, è la lastra che un raggio dipinge. La poesia è nelle cose: un certo etere che si trova in questa più, in quella meno, in alcune sì, in altre no. Il poeta solo lo conosce, ma tutti gli uomini, poi che egli significò, lo riconoscono. Egli presenta la visione di cosa posta sotto gli occhi di tutti e che nessuno vedeva. Erano forse distratti gli occhi, o forse la cosa non poteva essere resa visibile che dall'arte del poeta. Il quale percepisce, forse, non so quali raggi X che illuminan a lui solo le parvenze velate e le essenze celate. Ora il Leopardi (io pensavo fermandomi a guardare i monti di Macerata, sui quali si contorcevano alcune nuvole in fiamma, come dolorando) il Leopardi questo «mazzolin di rose e viole» non lo vide quella sera: vide sì un mazzolino di fiori, ma non ci ha detto quali; e sarebbe stato bene farcelo sapere, e dire con ciò più precisamente che col cenno del fascio dell'erba, quale stagione era quella dell'anno. No: non ci ha detto quali fiori erano quelli, perché io sospetto che quelle rose e viole non siano se non un tropo, e non valgano, sebbene speciali, se non a significare una cosa generica: fiori. E io sentiva che, in poesia così nuova, il Poeta così nuovo cadeva in un errore tanto comune alla poesia italiana anteriore a lui: l'errore dell'indeterminatezza, per la quale, a modo d'esempio, sono generalizzati gli ulivi e i cipressi col nome di alberi, i giacinti e i rosolacci con quello di fiori, le capinere e i falchetti con quello di uccelli. Errore d'interminateza che si alterna con l'altro del falso, per il quale tutti gli alberi si riducono a faggi, tutti i fiori a rose o viole (anzi rose e viole insieme, unite spesso più nella dolcezza del loro suono che nella soavità del loro rofumo), tutti gli uccelli a usignuolo. Ma non erano usignuoli quelli che io sentivo tra gli uliveti della valle sottoposta; sebbene d'usignuolo sembrassero tre o quattro note punteggiate che promettevano, a ogni momento e sempre invano, il prorompere e il frangersi della melodia: preludio eterno. Quelle note d'usignuolo mal riuscito erano di cingallegre; e io le udivo a quando a quando dare in quegli striduli sbuffi d'ira o timore, che sembrano piccoli nitriti chiusi in gola d'uccello; le udivo, ora qua ora là, strisciare a lungo la loro limina mordace su un ferruzzo duro duro. [...]"

3 commenti:

  1. Questa critica di Pascoli a Leopardi si fonda su una concezione pascoliana che si può riassumere nella frase: "Vedere e udire: altro non deve il poeta. Il poeta è l'arpa che un soffio anima, è la lastra che un raggio dipinge. La poesia è nelle cose".
    Pascoli è un poeta che io amo molto, per il suo uso sapientissimo della lingua. Però, non sono sicura che la poesia sia davvero solo nelle cose e non, invece, "negli occhi del poeta": Pascoli cercava una poesia "realistica", che probabilmente è un ossimoro, perché se la poesia non va oltre la realtà (come in effetti faceva anche quella pascoliana), forse non è poesia...

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  2. Forse Pascoli voleva dire che per riuscire ad andare oltre la realtà è però necessario partire da questa per come è e non come vorremmo che fosse, quindi evitare la seduzione dell'invenzione e cercare di non scivolare nell'indeterminatezza. Questo bisogno di attenersi alla realtà delle cose è forse la condizione che permette al poeta di fare quel passo in più e andare oltre, alla ricerca di quel significato comprensibile a tutti.

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  3. Ovviamente sono due intepretazioni diverse di poesia: Leopardi invece teorizzava proprio l'indeterminatezza come essenza della poesia.
    Io li amo talmente entrambi...

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