La mia cicatrice è una
linea sghemba che attraversa a destra il labbro superiore, come una
riga disegnata con la matita.
Ha una storia, la mia
cicatrice. Non una storia avventurosa, ma una storia.
Avevo un anno e mezzo e
stavo imparando a camminare. Per farmi coraggio ero solita tenere un
oggetto in mano. La mia barbie. Un cucchiaio di legno. Uno spazzolino
da denti. Abbrancavo saldamente il mio feticcio e poi procedevo,
fissando decisa la linea dell’orizzonte.
Quel giorno avevo scelto
una chiave. La grossa chiave della cassettiera di mia nonna, con una
nappa di seta gialla e bordeaux che dondolava ad ogni passo. La nappa
davanti e io al seguito, procedavamo per il corridoio. Decise
entrambe a vincere la forza di gravità che attirava il mio didietro
al pavimento.
Con noi c’era anche un
cane. Un cane che era stato di mia nonna, poi mia nonna era morta e
il cane l'avevamo ereditato noi. Si chiamava Pilù; acquistato come
barboncino, crescendo si era rivelato un barbone gigante, alto come
un dalmata, cocciuto come un mulo, ombroso come cavallo selvaggio.
A Pilù non ero
simpatica. Lui era abituato alle coccole delle anziane signore e ai
pettegolezzi della donna delle pulizie. Mica alle intemperanze di una
bambina. Così in genere si teneva piuttosto alla larga da me: se io
entravo in una stanza lui ne usciva, se mi avvicinavo borbottava con
una specie di rantolo di gola. Se tendevo la manina al folto ciuffone
che gli troneggiava sulla testa, era pronto a schivare.
Ma quel giorno chissà
cosa gli prese. Con un balzo mi fu alle spalle, mi appoggiò le zampe
sulla schiena e mi mandò lunga distesa sul pavimento.
Sventura volle che la
parte sporgente della chiave fosse rivolta alla mia bocca. E così mi
ritrovai atterrata e sfregiata nel giro di pochi secondi.
Il sangue prese a
zampillare e mia madre per poco non svenne, mentre mia zia rincorreva
il cane con la scopa. Mio zio, l'unico che aveva mantenuto un po' di
sangue freddo, mi appoggiò un fazzoletto alla bocca e mi caricò in
macchina.
Io piangevo e sanguinavo.
Sanguinavo e piangevo. E al pronto soccorso ci volle del bello e del
buono per farmi calmare. Ma alla fine tutto si risolse. Io ci
guadagnai un cerotto sulle labbra. Pilù una pedata nel sedere. E la
chiave, con la sua nappina, finì dentro un cassetto, da cui non è
più uscita.
Il segno sulle labbra fu
piuttosto evidente, all’inizio. Poi piano piano sbiadì e si
trasformò in questa cicatrice. Che si vede poco, in realtà. Si nota
solo quando rido. Ma mi fa ricordare che anche un innocuo barboncino
può trasformarsi in un’arma letale.
Mi piace la figura della chiave chiusa per sempre nel cassetto. Non so perchè, mi piace e basta. Bella storia..
RispondiElimina