La casa
sorgeva sul limite di una piazza, vicino alla chiesa di San Michele, proprio in
fondo al borgo medievale, rosata contro l’acciottolato grigio, estesa in
lunghezza, le finestre del prospetto non lasciavano che intuire il diramarsi
delle stanze e l’intrico dei ballatoi all’interno, chiuse spesso a difesa della
piombigna afa meridiana e dei nugoli di zanzare impazzite esalate dal canale di
lentissima quieta corrente.
La finestra
della stanza di Alfio compariva asimmetrica e ribelle sul prospetto, ricavata
in un tempo sconosciuto a nobilitare il mezzanino e l’anta mal fissa inchiodava
un rettangolo color vinaccia contro il muro esterno, svelando e negando in un
gioco di luci e di illusioni spazi che forse non esistevano. Dalla strada
sonora di ardesie e sassi di fiume solo quella finestra, a dispetto delle
altre, si notava, persino da lontano, allo sguardo solitario e ridente di
Marianna in bicicletta la maglietta incollata al petto dalla velocità, un’aria
di Mozart fischiettata tra l’eterno broncio e una ciocca di capelli scuri in
bocca, gli altri gettati dietro il collo con un gesto. Non vista, Marianna era
profonda e sognante, cullata tutta sola da se stessa nella passione per Alfio,
accanto a lui si dava come un contegno, una posa da intellettuale annoiata e
indifferente per gioco, per non cadere precipitosamente quanto avrebbe voluto
nel mistero della misurata silenziosità di lui.
Alfio dalle
lunghe gambe, scarno e forte, uomo di spigoli grigi, spesso taglienti, mai
motivati, poco indulgente, sorrideva come se singhiozzasse, stessa contrattura,
stesso verso secco in fondo alla gola. Solo quei lunghi, lunghissimi abbracci
dentro i quali si teneva stretta Marianna come se la volesse soffocare, dati
all’improvviso, senza motivo che fosse salutarla o dirle vattene per sempre.
Marianna persa per tutti quei minuti nello spazio di un respiro costretto
contro il torace di Alfio, quando riprendeva fiato aveva paura che non la
potesse lasciare respirare mai più. Gli regalava mentalmente quella paura: “nec
tecum nec sine te vivere possum”, ritmando con il respiro e la lingua contro i
denti stretti quei versi sognati prima che imparati a scuola, rimasti nella
memoria come l’eco, vissuti ora nell’istante eterno di due giovani innamorati
che se ne stanno in piedi, sulla soglia, abbracciati.
nota sull'autrice: Simona è un'amica "virtuale" di Università Aperta. Ho pensato che questo racconto, che mi ha gentilmente fatto leggere, meritasse uno spazio sul nostro blog. L'autrice non gli ha dato un titolo, quindi ne propongo uno io (indegno del racconto, ma abbiate pazienza).
Lorella
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