Benvenuti in Letteratura e dintorni!

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domenica 11 settembre 2011

LA PORSCHE DI PAPA' di Matteo Biserna

Aveva 23 anni e si era sempre sentito ospite, gradito ospite, a casa del dentista, era fidanzato da quattro anni con la figlia, una spilungona equina di nome Elena. Il loro rapporto proseguiva senza alti né bassi, mentre cresceva sempre di più in lui un senso d’inadeguatezza, di distanza, da tutto quello che lo circondava.
Erano giorni che non andava a casa di Elena, ma, appena si aprì il basculante del garage, ecco la vettura, acquattata sui larghi pneumatici, lo attendeva. Il meglio che si potesse pensare in materia di auto era lì davanti: Porsche Carrera 4S grigio piombo. Sul posteriore spiovente troneggiava la scritta in corsivo cromato, le plastiche rosse ed arancio dei fanali e degli stop rilucevano al sole di marzo, due enormi scarichi posteriori in acciaio ostentavano sportività. Il design nel complesso era devastante, una bomba a mano, come quello di ogni bolide di Stoccarda.

Si sentì dapprima grato per la dolce visione, ma subito si accorse dell’incredula e feroce rabbia che lo stava scaldando, il sordo rancore per quell’uomo, che aveva tutto, ed ora aveva agguantato anche il suo più grande sogno automobilistico, stava montando rapido, come albume fresco e schiumoso tra le veloci fruste del frullatore.
Con i parenti della fidanzata fece il sostenuto:“Non male il nuovo arrivo in garage…” e, come sempre, loro reagirono con un distacco ancor maggiore:”Siiii…l’auto è in prova, sai, ma com’è scomoda! Due posti poi, molto meglio un Suv direi!” Lui finse in qualche modo di star ascoltando.
I giorni successivi si susseguirono, secondo il solito copione prestampato: le uscite, i cinema, qualche birra con gli amici, e un lavoro sempre stentato, precario, che lo faceva sentir incredibilmente stanco, deluso. Quell’auto, non sua, era diventata il ricovero per sognare, ci saliva quando era solo in casa di Elena, in pigiama o in costume da bagno, e, con il clic delle chiusure automatiche, il mondo faceva un passo indietro e si ovattava, l’odore di pelle era rassicurante, inebriava l'ospite.
Il mostro era sempre rinchiuso nell’ordinato stanzino, “luogo e tempo sbagliato per la vipera a quattro ruote” pensava. Tutto negli interni denotava cura, studio del dettaglio: gli inserti in pelle, la strumentazione di bordo, il design essenziale, nessuna imperfezione o spazio vuoto tra i componenti, lo scudetto rosso e dorato fissato sul volante ruggiva, provocava, voleva che si accendesse il turbo e ci si buttasse in strada, sui tornanti. Il cavallino stesso scalpitava, sensuale, si dice che quello della Porsche sia femmina, a differenza del più prevedibile cavallino di Maranello. Nella sua mente si azionò qualche sorta di dipendenza, e la dipendenza in lui era sempre stata qualcosa di problematico da controllare, si vergognava del suo feticismo, aveva paura di lasciar segni del suo passaggio: uno spicciolo spostato, una riga sulla pelle del sedile.
Il dentista era fiero dell’auto ma la contemplava frettolosamente, senza autocompiacimento, come un professionista del suo calibro non poteva permettersi, uno che aveva guidato BMW, Audi Q5, Touareg, sapeva cosa significa avere sotto il culo certi missili, anche se, questa volta, era decisamente andato oltre i precedenti tentativi. Parlarono spesso dell’auto, ma sempre come se fosse un oggetto, in riferimento a parametri prestazionali, ben consapevoli, nelle rispettive menti, di discutere in realtà di un simbolo, di vita, obiettivi raggiunti ed obiettivi mancati di entrambi. Si parlava dei propri fantasmi.
Capitava che, vedendola andandosene a casa, con quel suo muso basso, il ragazzo avesse delle improvvise illuminazioni, insight sociologici, durante uno di questi fenomeni lo status “Porsche di papà” gli percorse la testa come un dardo: era un luogo comune, un clichè che si stava attuando proprio davanti ai suoi occhi.
Pensò alla vita, sua e di chi lo circondava, a come fossero tutte, inevitabilmente segnate, quello che doveva accadere, puntualmente, accadeva e ognuno interpretando il piccolo ruolo che il destino gli aveva attribuito dava la spinta per un altro giro di giostra.
Il suo osare, nel solitario appartarsi con il mezzo, si fece sempre più audace e malato, provò ad avviare il motore, da fermo, godette del rombo cupo, metallico, che nel chiuso della rimessa pareva il potente sound di un ritmo techno, quell’auto lo faceva stabilizzare, non trovava altre parole, era un fatto prettamente fisico
Le cose con Elena si stavano incrinando, per lei era previsto un futuro da socia nello studio paterno, a lui il lavoro di educatore in comunità aveva smesso da tempo di dare soddisfazioni e nuovi slanci. Si trovava a vivere più nella fantasia che nel presente e il loro rapporto ne risentiva tessendo tra i due distanze relative, ma pur sempre distanze. Presto si trovarono a non parlare, sempre partendo da malumori del ragazzo, perennemente contro il mondo, contro se stesso. Prima di lasciarsi con Elena, scese a salutare l’auto. Era coperta, il dentista le aveva fatto confezionare una fodera rossa su misura, per la quale aveva speso, come sempre, uno sproposito.
Scoprì il fanalone anteriore, lucido come la pupilla stupita di una enorme creatura, un essere fantascientifico. Le sue mani accarezzavano il profilo della carrozzeria quando avvertì l’impulso, forte e chiarissimo, sordo. Doveva ferire l’auto, doveva lasciarle un segno.
Si sentì come i bambini davanti a una bella distesa di neve soffice e perfetta, appena caduta, stesa morbida sul pratino davanti a casa. Avvertì tutto quel bisogno di intaccare, incidere la perfezione di una forma troppo liscia. Andò fino all'armadietto e prese una vite dalla cassetta degli attrezzi e incise un breve segno appena sopra il parafango anteriore sinistro. Il segno era netto, ma non più lungo di due o tre centimetri, nessuno l’avrebbe mai notato, ma lui si. Lui sapeva di averlo fatto e l’auto sapeva di averlo addosso. L’ordine era spezzato e lui ne era consapevole, aveva rotto l’incantesimo, ora la Porsche era un semplice oggetto fallato e lui non ci sarebbe salito mai più. Mai più. Se ne andò, e nel farlo ripose con cura la vite nella cassettina, facendo poi scattare la clip in plastica, premette l’apertura automatica del grosso basculante e si accinse a uscire. Fuori splendeva un sole che definire pallido sarebbe stato riduttivo. Il basculante, dietro le sue spalle, borbottava e cigolava per far tornare tutte le cose a posto. Quel segno non significava nulla, per l’attuale proprietario, o per chi lo sarebbe stato in seguito. Era un piccolo segno per lui, solo per lui che ora usciva da quella casa per sempre.

4 commenti:

  1. Complimenti, Matteo, è proprio un bel racconto!

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  2. questo racconto fa pensare a quanto tempo perde la gente, come si possono facilmente scambiare "amoriperlepersone" con "amoriperlecose"...
    è certamente un insight VERO dentro la (povera) natura umana.

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  3. in realtà questo racconto parla di fasi, contrapposizioni generazionali in cui volevo sottolineare la tenerezza per lo sterile impeto giovanile versus la grassa e stanca opulenza degli adulti. Non credo parli di avidità o di invidia in senso lato. Su una cosa siam d'accordo la natura umana è povera cosa, per fortuna.

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  4. Se mi fanno un graffio nella porsche gli taglio la testa

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