Benvenuti in Letteratura e dintorni!

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Università aperta Giulietta Masina e Federico Fellini ha sede a Rimini e si occupa da anni di educazione permamente per un pubblico vasto e variegato per età, inclinazioni e interessi. Questo blog è dedicato in particolare a tutti coloro che frequentano, hanno frequentato o vorrebbero frequentare i nostri corsi di scrittura ma anche a tutti coloro che amano leggere, scrivere, confrontarsi su argomenti letterari.


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domenica 26 giugno 2011

LA PRIMA NOTTE - di Lorella Camporesi

i racconti della domenica
Un giorno di giugno del 1972, i nonni si erano da poco trasferiti in città, in un appartamento al primo piano di una palazzina quadrifamiliare, colorata di uno sbiadito celeste, con un piccolo cortile di grandi piastrelle grigie e due saracinesche un po' arrugginite a piano terra.
io avevo nove anni e non capivo perchè si dovesse andar via dal paese, dove la mia famiglia abitava da sempre. la città mi sembrava lontanissima e strana. Sì, perchè, quando una sera restammo a dormire dai nonni, scoprii che a Rimini non esisteva la notte.
A casa, la mamma serrava le finestre con le tapparelle, perché non entrasse neppure un filo di luce o piuttosto per evitare che s'insinuasse il buio, perché, in realtà, fuori c'era solo la luce della luna, quando la luna c'era, e miriadi di stelle che però non riuscivano a fugare l'inquietudine generata dall'oscurità che a sera si sdraiava minacciosa intorno, sui campi deserti. Saliva da S. Marino, quando verso il Monte S. Marco si poteva vedere ancora indugiare gli ultimi raggi del sole; sembrava lontana e lenta, ma subito era già lì, a rendere scuro e triste il sentiero del cimitero e bastava poco perché si scorgessero ormai soltanto i luminn accesi sulle tombe, in mezzo al nero della notte, racchiusi dal nero più denso del muro di cinta.
La mamma aveva paura del buio e aveva paura che il buio mi facesse paura. Così, dopo aver serrato accuratamente le tapparelle e chiuso fuori la temibile oscurità esterna, metteva a cuccia in un angolo, di fianco all'armadio, quella interna e familiare, accendendomi sul comodino l'abat- jour, che con la sua lucetta rassicurante doveva tranquillizzarmi sul fatto che, anche di notte, il guscio della mia vita quotidiana fosse ancora lì a proteggermi.
Quando, quella sera, restammo a dormire dai nonni, scoprii che invece a Rimini in buio non c'era: tutti quei lampioni che illuminavano la strada contendevano la scena alle stelle e la notte, che si affacciava timida dal mare, scavalcava la città per raggiungere al volo il Titano, che le si stagliava contro orgoglioso, con le sue tre antiche torri. Mantre mi richiamavano in casa per la cena, i miei coetanei di città si intratenevano ancora a giocare a settimana sull'asfalto segnato col gesso. E anche quando mi preparavo ad andare a letto, fuori la vita continuava senza interruzioni.
Le tapparelle, a Rimini, non potevano essere serrate, a casua del caldo. L'abat- jour non c'era, e la luce filtrava dall'esterno, attraverso i fori delle serrande, ma condivideva l'aspetto inquietante delle estranee cose di fuori ed entrava, non invitata, insinuante e sfacciata, ad illuminare in modo improprio pezzi di una stanza non mia; spigoli di mobili estranei sporgevano dall'oscurità, che invece di accucciarsi domata nell'angolo accanto all'armadio, giocava con i raggi di luce contendendo loro strane geometrie.
Arrivava fino a disegnare strisce luminose sulla parete sopra la mia testa, strisce che io non potevo vedere, ma delle quali in qualche modo sentivo la presenza straniera e sottilmente minacciosa.
Cercavo di dare un senso alle ombre sfrangiate che si appiccicavano alle pareti, ma subito i fari di unì'auto, che passando occhieggiavano all'interno della stanza, scompaginavano le mie sicurezze.
E poi, nella notte di Rimini non c'era il silenzio: alle finestre dell'appartemento rimbalzavano le voci e i rumori della strada.
A casa mia, con le tapparelle serrate, non si percepivano rumori esterni; d'altra parte, quali rumori si sarebbero dovuti sentire, a parte il passo spedito di qualche uomo che si affrettava sulla strada sterrata per raggiungere l'osteria e fare una partita a carte con quattro amici davanti ad un bicchiere di vino? A volte, in primavera, il suono dei passi poteva essere accompagnato da un leggero fischiettare, un'espressione di gioia, ma anche un modo per esorcizzare l'inquietudine delle ombre che si incontravano sul cammino e che risvegliavano il ricordo di vecchi racconti. Poi, fuori c'era a volte il suono che più di tutti gli altri mia madrre aborriva e voleva tener lontano dalla nostra casa di notte: il canto della civetta, arcana profezia di grandi ed oscure sciagure.
Ma nella notte di Rimini i rumori si succedevano e si accavallavano, irrompendo scomposti nella stanza: le chiacchiere e le risate dei ragazzi che si incontravano sulla via, un motorino, una bicicletta, rumore di auto, vicine e lontane; voci, passi, una portiera che sbatteva... la serranda di un garage?... Quanto durò la mia notte a Rimini? Pensavo che non mi sarei mai addormentata. Non era un posto dove si potesse dormire. Forse gli abitanti non dormivano proprio. Cominciai a sentire nostalgia della paura ancestrale della notte.

Di lì a poco, per eventi che io non peteveo capire e che la mia famiglia non aveva potuto controllare, anche i miei genitori avrebbero deciso di trasferirsi a rimini e col tempo, dopo aver a lungo guardato in direzione dei miei monti prima di addormentarmi, avrei imparato ad amera qeulle notti che non vanno mai a dormire, che non spengono mai le luci, calde e piene di zanzare, che entrano di prepotenza nella tua stanza e non c'è modo di chiuderle fuori.

Quando aprii gli occhi, dalle tapparelle mal chiuse filtravano la luce del sole romagnolo già alto e i rumori della domenica mattina.

Lorella

2 commenti:

  1. Raccontare con un linguaggio adulto ricordi infantili non è facile. Del resto non è facile raccontare ricordi, poiché l'elaborazione che se ne fa scaturisce dal momento che stiamo vivendo, pertanto in qualche modo concorre a rimescolare le carte. Soprattutto è difficile raccontare le paure dell'infanzia, perché da adulti cerchiamo di razionalizzarle mentre il bambino non lo fa.
    Tutto 'sto sproloquio per dire che mi è piaciuto l'equilibrio che hai saputo trovare tra il linguaggio adulto e il ricordo che risale all'infanzia. Sei riuscita a mantenere quel velo che nasconde al bambino il perché delle cose, permettendogli così di guardare il mondo con occhi innocenti, come se dovesse rinominarlo. Peccato che con il passare degli anni siamo destinati a perderla quella "innocenza".

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  2. Il racconto è una fotografia, è così che mi piace pensarlo, l'istantanea del momento in cui ogni bambino dovrebbe dormire, sotto le coperte, ma le domande, i dubbi, i timori della notte lo spingono a staccarsi da quella stanzetta e a volare sopra le case, i monti, sopra la città che dorme. Rimini si presta perfettamente all'opera.

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