| i racconti della domenica |
A me, da piccola, le fiabe mi piacevano un sacco. Per mangiare, per dormire, per andare in bagno, ci voleva sempre qualcuno che leggesse o che raccontasse. Mia madre, che ha una bella voce ma poca fantasia, preferiva leggerle. Invece mia nonna, che leggere non leggeva bene, perché aveva fatto fino alla terza elementare e poi l’avevano mandata nei campi, lei raccontava delle fiabe bellissime. Spesso erano fiabe che venivano da quando lei era piccola, ma a volte se le inventava di sana pianta. E quelle forse erano le più belle, perché c’erano dei personaggi incredibili che chissà come le venivano in mente, lei che fuori di casa usciva pochissimo e alla televisione guardava solo gli sceneggiati con Alberto Lupo e Nino Castelnuovo.
Le fiabe più belle, però, io le ascoltavo a scuola.
Mi ricordo che c’era una bidella, che si chiamava Roberta. Le volevamo tutti un gran bene, perché era gentile, non ti sgridava mai, e anche se camminavi sopra il pavimento bagnato, che aveva appena dato lo straccio, non ti diceva nulla.
Lei sì che le sapeva raccontare, le fiabe.
Quando capitava che qualche maestra tardasse ad arrivare, magari perché aveva un imprevisto, la Direttrice mandava una bidella a tenere buona la classe. Se toccava alla Roberta, lei si sedeva in cattedra, e poi ci diceva “Volete che vi racconti una storia?”. Noi pendevamo dalle sue labbra ancora prima che dicesse c’era una volta.
La favola che le piaceva di più raccontare, quando era in classe, era quella di Pinocchio. Ma non la raccontava e basta: la rendeva viva. Muoveva gli occhi, le mani, e poi faceva tutte le voci: quella profonda di mangiafuoco, quella melliflua del gatto e la volpe, quella suadente della fatina dai capelli turchini. E come ragliava, quando Pinocchio era trasformato in asinello! Quando arrivava al punto in cui Geppetto e Pinocchio si incontravano nel ventre del pescecane (lei lo chiamava così, e non balena come nel film della Disney) noi ci commuovevamo. Pinocchio salvava il suo papà , se lo caricava in spalla, nuotava fino alla riva, e in classe c’era sempre qualcuno che scoppiava a piangere. Quando poi Pinocchio veniva trasformato in un bambino vero, applaudivamo tutti, anche se a me quel pezzo è sempre dispiaciuto un po’, perché significava che la magia era proprio finita, non ci sarebbe stata più avventura, arrivava anche lì la normalità .
Ma i momenti più belli erano quando avevi male alla pancia o la febbre o mal di gola. Allora la Direttrice telefonava a casa tua che qualcuno ti venisse a prendere, e ti mandava ad aspettare nella stanza delle bidelle. Lì la Roberta ti prendeva in braccio e ti raccontava una favola per distrarti. Una favola speciale, che era tutta per te perché eri malato.
C’era sempre un bambino, o una bambina, che guarda caso aveva il tuo nome e ti rassomigliava anche un pochino, come protagonista. A questi bambini succedevano cose incredibili, tutte le cose che avresti voluto succedessero a te, piene di avventure e di colpi di scena. Se eri una bambina, c’era sempre un ballo a corte, con gli abiti di seta e coroncine di fiori nei capelli. E se invece eri un maschietto, non mancava una spada o una pistola laser. Nel mio caso c’era una bambina che si chiamava Francesca e aveva le treccine e gli occhiali. Un giorno, mentre cavalcava in un bosco, incontrava una fata con un’ala impigliata nella corteccia di un albero. Lei scendeva con un balzo e liberava la fatina che le donava un’ampolla magica.
Io non mi sono mai chiesta perché una fata, che poteva fare gli incantesimi, non riuscisse a liberare un’ala da un pezzo di legno. Non me ne importava un accidente. Io pensavo alla bambina che si chiamava come me e che sapeva andare a cavallo, non solo, ma scendeva dalla sella con un agile salto mentre io già a quell’età ero pesante e legnosa e dal cavallo ci sarei caracollata spaccandomi come minimo la testa.
Ma la Roberta, quando ti raccontava, ti faceva sembrare che davvero quelle cose ti potessero succedere e così, quando arrivava la mamma per portarti a casa, ti dispiaceva anche un pochino. Anche se magari avevi 39 di febbre e due tonsille come due meloni.
La Roberta ci sembrava tanto vecchia, perché aveva qualche capello bianco e gli occhiali con la montatura pesante. Ma penso che non dovesse avere molti più anni di quanti ne abbia io adesso. Per i bambini sono tutti decrepiti, loro hanno una diversa misura del tempo, lo vedo adesso con i miei figli.
La storia della Roberta io l’ho saputa anni dopo, me la ha raccontata lei stessa, in un modo che non starò a svelare adesso, altrimenti rovino tutta la suspance.
La Roberta era nata in un piccolo paese dell’Appennino marchigiano, prima di cinque fratelli. Il nome del paese non è che non lo voglio dire, è che non me lo ricordo proprio. Mi ricordo però quello che lei diceva: che all’epoca erano solo case, con una chiesa in mezzo e poi campi tutti intorno. In una di quelle case, in cima ad un sentiero in salita che a farlo di corsa toglieva il fiato, ci abitava la sua famiglia. I genitori della Roberta erano contadini, come tutti in quel paese, e non se la passavano troppo male. Avevano un paio di bestie, qualche gallina, i conigli. Insomma, il pane e il companatico in casa non mancavano mai, anche se non c’era da scialare.
La Roberta aveva fatto le scuole in paese, con una maestra che si chiamava Assunta Ariano e che non era chiaramente di quelle parti. Veniva da giù, la maestra, dalla bassitalia, come si diceva quella volta, e al freddo di quegli inverni non si era mai abituata del tutto. Così, quando nevicava e tirava il vento forte, lei raccontava storie di grotte azzurre, di pesciolini d’oro e di pescatori fortunati, e con quelle storie ci si scaldava il cuore. Anche la Roberta si riscaldava, ma in un altro senso. Le veniva come una smania, un’ansia, e quando tornava a casa si metteva i fratellini intorno, gli dava dei giornali vecchi per quaderni e dei mozziconi di matita e poi gli raccontava delle storie. Le stesse storie che sentiva a scuola o anche di diverse. Poi, quando aveva finito, diceva “adesso vi insegno l’ABC” e andava avanti tutto il pomeriggio, fino a che anche l’ultimo dei fratelli non sfuggiva al suo controllo, con una scusa o con un’altra.
Che la Roberta da grande volesse fare la maestra, lo avevano capito anche le vacche nella stalla. “Vedremo” diceva suo padre e sua madre sorrideva, e non gli dispiaceva affatto, a nessuno dei due, l’idea di una figlia che studiava. Sacrifici in più da fare, ovviamente, ma valeva la pena, che la Roberta era intelligente e lo diceva anche la maestra, quella forestiera, che temi belli come i suoi non ne aveva mai letti in venti anni di servizio.
Ma poi era successa la disgrazia. Bruno, il più piccino, si era ammalato. Una malattia brutta. Tossiva tanto, fino a sputare sangue, ed era diventato bianco e trasparente come un velo di cipolla. I genitori erano scesi fino ad Ancona, che già allora c’era un ospedale importante, e lo aveva visitato un professore. Ma non c’era stato niente da fare. Bruno era morto dopo neanche un mese, con degli spasmi al petto che sembrava ci vivessero dentro degli uccelli. La mamma della Roberta non resistette a questo dolore così grande. Iniziò a non distinguere il giorno dalla notte. Dormiva tutto il pomeriggio, si alzava quando era ora di cena, mandava giù un pezzo di pane e poi via per la campagna. Una sera il padre della Roberta volle seguirla. Le camminò a lungo alle spalle, senza che lei se ne accorgesse, poi la vide chinarsi sulla terra. Strappava manciate di erba e le mangiava. Zolle di terra, mangiava. E piangeva mormorando “E’ colpa mia. E’ colpa mia.”
La notte dopo la chiuse in casa, e la donna ringhiò e pianse e lo pregò di lasciarla andare. E così fece anche la sera dopo e quella dopo ancora. E forse sarebbe stato meglio che l’avesse lasciata a mangiare erba, perché da quel momento la mamma della Roberta si attaccò alla bottiglia, e non ci fu più nulla da fare per lei, fu persa per sempre.
Così naufragò per la Roberta il sogno di fare la maestra. Lei all’inizio non la prese bene: passò due settimane senza dormire e senza mangiare, solo piangendo. Le zie andarono in processione dalla madre, per convincerla a riprendersi, che se le era mancato un figlio gliene rimanevano altri quattro, e alla Roberta, che voleva studiare da maestra, alla Roberta non ci pensava? Evidentemente non ci pensava, alla Roberta, e neanche agli altri tre, che non ebbe la forza di tirarsi fuori da quella disperazione e morì alcolizzata, dieci anni dopo, cadendo dentro a un fosso.
E in quei dieci anni, ne fece di cose la Roberta. Tirò grandi i bambini, li educò, e quando anche il più piccino, che ormai era alto come un albero, andò da uno zio ad imparare un mestiere, fu tempo di pensare a se stessa. Di ricominciare a studiare non se ne parlava proprio, ormai era troppo grande, già in età da marito. Con l’aiuto di una parente, che era diventata suora e nel suo piccolo aveva anche fatto carriera, trovò un posto in un convitto femminile, dove imparò l’economia domestica, il rammendo, il ricamo, tutte cose che, se non placavano la sua fame di sapere, di sicuro però erano meno faticose che spaccarsi la schiena nei campi.
Le suorine misero una buona parola per quella ragazza che sapeva rifinire asole meravigliose, e la Roberta finì a lavorare da una sarta importante, in una città della riviera. E fu in quella città che iniziò la sua vita. Durante una gita organizzata dal dopolavoro ferroviario, conobbe un giovanotto molto impettito e con i baffi folti, che faceva le manutenzioni ai locomotori e adoperava la chiave inglese, così diceva lui, come Michelangelo lo scalpello.
Alla Roberta, questa cosa che un ferroviere conoscesse Michelangelo la stupì molto, e piacevolmente, e così lei e Ferruccio presero a vedersi anche dopo la gita, e una domenica pomeriggio lui la portò a conoscere i suoi genitori, e le offrirono il caffè e dei biscotti secchi con le nocciole.
Fu un grande amore. Quando parlava del marito, alla Roberta le si illuminavano gli occhi e le venivano le guance rosse. Lei e Ferruccio si sposarono e andarono a vivere per un po’ a casa dei genitori di lui. Poi trovarono un appartamentino, dalle parti della stazione, in un casermone che esiste ancora e che, per la moda di adesso è brutto che non si guarda, ma che all’epoca, alla Roberta, sembrava l’Empire State Building.
Lì nacque anche la figlia della Roberta, che lei volle chiamare Beatrice come la musa di Dante. Le zie contestarono molto, che era un nome troppo altisonante per la figlia di una ferroviere, ma la Roberta non si lasciò scoraggiare. E la prima volta che una delle zie provò a chiamare la bimba Bice, la Roberta fece un tale baccano che nessuno si azzardò mai più. Beatrice doveva essere e Beatrice fu.
Quando la piccola musa ebbe cinque anni, la Roberta pensò che fosse tempo di cercarsi un lavoro. Il suo desiderio più grande era trovare qualcosa nella scuola, a contatto con i bambini, a respirare quell’aria di gessi e sussidiari che aveva sognato per tutta la gioventù. Fu fortunata e forse la vecchia zia suora ci mise di nuovo lo zampino: trovò un buon posto da bidella in una scuola elementare, a pochi chilometri da dove abitava, che in autunno e in primavera, nelle belle giornate, poteva andare a lavorare in bicicletta.
La scuola elementare dove andai a finire io.
Ma adesso racconto come la rividi, che è la parte più bella di questa storia. Dopo le elementari, la Roberta la persi di vista: feci le scuole medie, poi il liceo, infine mi iscrissi all’università . Non sono stata una studentessa modello, e a laurearmi ci misi un po’. Ma alla fine ci riuscii anche io, e a quel punto si trattò di cercare un lavoro.
Negli intervalli di tempo, fra l’invio di un curriculum e la risposta ad un annuncio, leggevo. In quel periodo lessi veramente un sacco di roba. Tanto che a furia di comprare libri, finii tutti i soldi che mi avevano regalato per la laurea, che non erano tantissimi ma neppure pochi. Alla fine, visto che il tempo libero era purtroppo ancora tanto, pensai di procurarmi una nuova fonte di approvvigionamento. E varcai la soglia della biblioteca di quartiere.
Aveva il vantaggio di essere vicina a casa e potevo passarci pomeriggi interi indisturbata, senza la litania di mio padre che mi ripeteva “trovati un lavoro, un lavoro qualsiasi, trovati un lavoro, basta che ti paghino”.
Ma quando entrai, che sorpresa! C’era proprio lei, la Roberta, attorniata da un nugolo di bambini che le mostravano illustrazioni di libri, fogli di carta pieni di cancellature, disegni fatti da loro. Sembrava una chioccia attorniata dai pulcini, una gallinona grassa e felice con una gran massa di capelli bianchi tutti cotonati e gli occhiali con la montatura blu fosforescente.
Io la riconobbi subito, perché sono sempre stata fisionomista e perché lei e le sue favole erano state davvero importanti per me. Ma mai mi sarei aspettata che mi riconoscesse lei: quanti bambini dovevano esserle passati accanto al grembiule nero in tutti quegli anni?
Invece appena mi vide mi fece un gran sorriso e mi chiamò. “Vedete bambini? Questa signorina ha frequentato le scuole quando io facevo la bidella. Era una bimba graziosa, con le treccine e una cartella con un grande cane disegnato sopra.” Io la cartella con il cane non me la ricordavo proprio, e secondo me lì la memoria della Roberta fece un po’ cilecca, ma la storia delle treccine era vera, anche se graziosa, a voler essere sinceri, non lo sono mai stata.
Mi trovai così una decina di occhietti, più qualche lente, che mi guardavano curiosi. Avrebbero voluto farmi mille domande, ma nessuno ebbe il coraggio di rivolgermi la parola. Poi tornarono alle loro occupazioni di lettura, scrittura, disegno ed io ebbi la Roberta tutta per me.
Ci sedemmo a chiacchierare, molto felici di esserci trovate. Fu un dialogo breve, perché dopo poco tornarono alla carica i bambini, ma non fu che il primo.
In quel periodo di pomeriggi alla biblioteca io la aggiornai sulle mie novità , che riguardavano lo studio e il lavoro che non si trovava, e lei mi raccontò tante cose di sé. Mi raccontò la sua storia, tutte le cose di cui ho narrato, e tutte le cose nuove che le erano successe e che l’avevano portata alla biblioteca.
Dopo che era andata in pensione, ancora in buona salute e piena di energia, aveva deciso di farsi un regalo: si era messa a studiare e aveva sostenuto, da privatista, l’esame di scuola magistrale. Non era stato troppo difficile, diceva. Un po’ perché su certe materie era già quasi esperta, che quando faceva la bidella le piaceva farsi prestare i libri vecchi dalle maestre giovani fresche di laurea. E un po’ perché i suoi esaminatori avevano capito che lei non lo faceva certo per cercare un lavoro, che già era in pensione, ma per sfizio personale, e avevano avuto un occhio di riguardo. La professoressa di inglese, per esempio, era stata molto gentile con lei, l’aveva messa a suo agio, e le aveva chiesto solo uats ior neim e au old ar iù.
Dopo il diploma non si era fermata: aveva impiegato anni a mettersi in pari con i suoi desideri, adesso di accontentarsi non se ne parlava proprio.
Così, quando le arrivò la voce che alla biblioteca del quartiere n. 3 cercavano volontari per tenere aperto, lei si precipitò. Portò la sua domanda con la marca da bollo, che poi non serviva e le rimase per mesi nel portafogli, e due foto formato tessera. Le fecero il suo pass, con il nome accanto alla scritta “volontaria” e alla foto, e le diedero la chiave. La Roberta diceva che il primo giorno l’impiegata dell’anagrafe l’aveva accompagnata e le aveva detto “Ora è tutta sua”.
E lo era davvero. La Roberta si muoveva nella biblioteca come nella sua cucina: sapeva dove era ogni libro ed ogni enciclopedia, controllava prestiti e restituzioni, e aveva persino rivoluzionato il metodo di catalogazione.
Il primo bambino era arrivato due settimane dopo. Sua madre era straniera, portava il velo che le copriva la testa e buona parte della faccia, e parlava poco l’italiano. La maestra aveva dato da fare una ricerca sui canguri e sembrava che nessuno fosse in grado di aiutarlo. La Roberta fece tutto il suo meglio e anche di più: cercò libri sull’Australia e sui marsupiali, fotocopiò fotografie e disegni, inventò persino la storia di un canguro che tirava di box e che era andato alle olimpiadi. Poi disse al bambino “Torna quando hai finito che correggiamo l’ortografia”.
Ben presto si sparse la voce che alla biblioteca c’era un’impiegata nuova che aiutava a fare i compiti e raccontava le fiabe. E tutti vollero verificare di persona.
Il motto della Roberta era “Niente scarabocchi, niente orecchie e se mi accorgo che ci sono delle pagine strappate, vi picchio in testa con la costa del libro”. Ma secondo me non ha mai picchiato in testa nessuno. Perché se c’era qualcosa che la Roberta amava, quella erano i libri. E se c’era qualcuno che amava anche di più, erano i bambini.
Qualche mese dopo, per fortuna, le cose presero a girare e trovai un lavoro. Non era il massimo, però era un inizio.
Alla biblioteca andai sempre meno spesso, poi per nulla, e della Roberta non ebbi più notizie.
Adesso avrà una certa età e immagino che abbia smesso di fare la volontaria. Mi piace immaginarla attorniata di nipoti, mentre racconta una delle sue fiabe piene di fantasia. Dove alla fine tutti, ma proprio tutti, vivono felici e contenti.
Bella l'idea di trasformare i propri ricordi in racconto... Ma, Franz, queste cose ti sono successe davvero oppure è un escamotage letterario?
RispondiEliminaMi è piaciuta l'idea di "inscatolare" un racconto nella cornice di un ricordo, ne è venuta fuori una bella storia. Trovo appropriato il linguaggio che hai usato perché, a mio parere, si avvicina al parlato, riuscendo così a rendere molto bene la freschezza e l'immediatezza di questo racconto, togliendogli quella patina di "costruito" che, diversamente, l'avrebbe reso freddo. Ogni storia, secondo me, ha una sua voce, un linguaggio suo, nel senso che non si può raccontare tutto allo stesso modo. L'abilità del narratore consiste anche nel saper calibrare il linguaggio che usa, onde evitare di scivolare nel caricaturale.
RispondiEliminaIn questo senso tu sei stata molto abile, infatti è un aspetto del tuo racconto che mi è piaciuto molto.
Dopodiché ci sono tanti particolari e dettagli che rendono bene la tenerezza di cui è intessuto.
Mi hai fatto venire in mente la "mia" bidella delle elementari, si chiamava Gina. Era amatissima da tutti gli scolari e dalle maestre, poiché riusciva ad essere sempre presente ed era dotata di sovrumana pazienza (e non sempre con le maestre ce ne voleva meno che con i bambini :-)).
D'accordissimo con Barbara sulla questione del linguaggio. Visto, Francesca, che non era troppo lunga? ;)
RispondiEliminaQuesto racconto ha molte caratteristiche, secondo me, della narrazione orale. Quella malia che ti prende, che ti incanta, un po' ti ipnotizza, che ti fa stare lì fino alla fine. E di cosa si parla in questa storia? Di qualcuno che racconta storie, favole e qualcun altro che ascolta, incantato.
RispondiEliminaPensando alle bidelle della mia vita da studente, devo dire che nessuna assomigliava a Roberta. Le mie erano tutte ruvide.
Stella.