i racconti della domenica |
Nella casa della zia Matilda c’era polvere ovunque, appoggiata sul legno chiaro del pavimento, sui vasi di ceramica con i fiori sfioriti galleggianti nell’ acqua stagnante, sui vecchi divani di un pesante broccato vermiglio, sui tappeti persiani che giacevano nella penombra dei corridoi.
In cucina no, lì regnava un pungente puzzo di aglio e broccoli. Ripugnante.
Il silenzio e l’olezzo mi spinsero a voltarmi verso la porta d’ingresso. Verso l’unica via d’uscita da quel regno sconosciuto e stomachevole. Mi scricchiolò sotto i piedi un sentierino di ghiaia bianco argenteo che conduceva all’entrata di un giardino. Sembrava odorare di gesso ma forse era solo un’impressione…
La vera casa di mia zia Matilde e delle mie cugine Iris e Rosa.
Un arco di boccioli di rose invitava ad abbassarti od inchinarti ed entrare in quell’incantesimo verde bottiglia.
Poggiai i piedi nel silenzio ovattato di una natura lussureggiante, arbusti vigorosi, siepi impertinenti, alberi da frutta allungati ostinatamente verso il cielo e fiori sfavillanti, quasi consapevoli del proprio vivace colorito.
Tutto là sembrava vivo, energico e frusciante.
Intravidi qualcosa. Delle pennellate di bianco e nero. In quel limbo boscoso sembravano innaturali e fuori posto.
Mi avvicinai cercando di produrre il minor rumore possibile per non disturbare.
Passai davanti a un albero di limoni. Era in fiore. Con solo due enormi limoni maturi sul punto di cadere dal ramo. Il profumo dei candidi fiori della pianta mi entrò dagli occhi, mi scese fino a naso e bocca, respiravo quel profumo dolce, flautato, avvolgente. Mi sembrò un abbraccio. Lì vicino c’erano alcune piante di camelie, quasi sfiorite. Ancora resistevano alcuni fiori divaricati e stanchi tra le foglie verde scuro.
Quello era un odore zuccherino, delicato, carezzevole, quasi melodioso. Trovai una panchina in ferro battuto proprio di fronte alle camelie e a fianco del limone. Mi sarei seduto lì e sarei rimasto fermo per sempre a respirare quelle note armoniose e carezzevoli. A osservare quel giallo intenso del limone e la sua buccia ruvida, spessa, bucherellata. E quei boccioli gonfi e chiusi come neonati appena partoriti nell’incavo delle braccia della mamma.
Ma sentii una voce. Era quella di zia Matilda. La signorina dei servizi sociali mi aveva preceduto. Doveva essere stato quando mi ero avvicinato per odorare i fiori del limone o per carezzare i fiori quasi appassiti delle camelie. Le aveva anticipato il mio arrivo e ora mi ero perso il primo sguardo di mia zia, il suo vero essere, la sua reale predisposizione d’animo nei miei confronti.
Da quando i miei genitori erano morti, e io ero stato affidato alle cure dell’orfanatrofio Santa Madre di Gesù, avevo incontrato alcune persone, alcune future trepidanti mamme. Mi ero allenato in questo. Bastava guardare esattamente la luce del loro sguardo nell’istante in cui veniva detto loro il tuo nome e i tuoi anni. E la piega della bocca. Subito capivi se gli eri piaciuto e se avrebbero scelto te o un altro bambino, un altro Luca, un Michele, un Edoardo.
Era diventato così facile che ormai l’attesa dietro la porta del salone delle visite non era più così insopportabile. Già ero a conoscenza del verdetto. Già il colore degli occhi e quella scintilla mi avevano rivelato ogni cosa.
Poi avevano trovato quella zia. Una signora elegante, abbiente, vedova e sola con due figlie proprio della mia età . Ed era parso un miracolo, almeno per me. Forse un obbligo per lei e le sue figlie. Un intruso nel loro regno muschiato e ombreggiato.
Così mi ero perso la luce negli occhi e la prima piega della bocca. E non avrei mai saputo se era felice di avermi con sé o se avrebbe voluto un bambino con i capelli del colore del grano, o con gli occhi cerulei, slanciato e vigoroso come un albero di melo.
La voce risuonò tra le foglie e i rami degli alberi un po’ acuta, lievemente aspra in un contenuto ed artefatto richiamo.
“Lucaaa!” sembravano non poterci essere obiezioni, ritardi, incertezze.
Aveva un chè di imperioso, nascosto sotto un’ombra di una suadente inflessione.
Sentii uno scalpiccio ovattato della signorina che mi aveva accompagnato, della zia, e delle bambine.
Mi mossi verso di loro. Verso quelle pennellate innaturali e stonate. Passai di fianco a un melo. Il profumo di limone era scomparso. Ora mi sembrava di avvertire un sentore acidulo, persistente, pungente come un pizzicotto nei reni dei compagni di banco dietro di me. Aveva fiori piccoli, rosati sui bordi e bianchi sul cuore e radici superficiali e striscianti.
Ma la realtà era che l’arbusto era nervoso, proteso verso il cielo con superbia e caparbietà . Era aspro come il tono di voce della zia.
“Lucaaaa dove ti sei nascosto caro?”
Si aggiunsero anche due voci di bambine.
“Lucaa cugiinooo” due noti argentine, e forzatamente infantili.
Proseguii contro voglia. Separandomi ancor più dai fiori di limone e dalle camelie.
Raggiunsi una radura. L’erba era alta. Da un lato c’erano delle grandi piante formate da fitte spighe che terminavano in ombrelli di piccoli fiorellini color pervinca.
Il loro profumo saliva a ondate, prepotente, intenso, forte. Mi voltai seccato.
Dall’altro lato enormi siepi di piante alte fino a due metri. Rigogliose, autoritarie, con splendidi fiori a grappolo o pannocchia, sorretti da alti steli arcuati. Di molti colori, indaco, rubino e malva. Il suo odore, però era ancora peggio.
Intossicava l’aria con quell’insistente profumo di miele.
Mi girai. Non c’era via d’uscita. La radura era senza sbocchi sul resto del giardino.
Mi raggiunsero presto la zia e le cugine.
Matilda aveva un abito in organza lungo fino alle caviglie e un foulard in seta nero inchiostro con un fiocco sul petto. Un cappellino con fiori in tulle nero appuntati tutt’intorno copriva in parte e ombreggiava gli occhi piccoli e leggermente infossati. Anche essendo a un passo da lei non avrei saputo leggervi proprio niente. Saltellando alla sua destra e alla sua sinistra ecco comparire le mie cugine. Capelli biondi color del grano, occhi cerulei piccoli e infossati. Due deliziosi abitini in taffetà avorio e grigio antracite. Mi investì un’ondata di profumi sgradevoli e nauseanti tanto che fui costretto a tapparmi il naso con una smorfia.
“Aahaha Luca eccoti! Non è educato non rispondere a chi ti chiama sai caro? Finalmente vedo il figlio della mia adorata cugina ebrea!”
Alle sue spalle Rosa squittì:
“Mamma mamma perché è così scuro di carnagione? E perché si tappa il nasino con le dita??”
“Ahhahah perché non gradisce l’odore forte della verbena, cara, è un odore persistente un po’ aspro, forse, non è così Luca? O forse non ti piace l’odore della mia amata Buddleia?”
In quel momento con un guizzo saltellò di fianco a me, e il suo vestito mi sfiorò il braccio. Allungò il suo dietro di me e il foulard le scivolò scomposto sull’altra spalla. Le uscì un grido acuto, soffocato, stizzito. Nella sua mano comparve un lungo bastone con una retina all’estremità . Notai con orrore che vi era rimasta impigliata una farfalla.
“Questa volta l’ho presa!!” sussurrò con una certa soddisfazione mal celata.
“L’ha presa l’ha presa!!!!” miagolarono le bambine.
Tornammo tutti in casa per il the’. Io ero scosso. Dall’odore che mi era rimasto imprigionato nelle narici, miele appiccicoso e un odore che mi ricordava lavanda o canfora, o tutte e due. Le bambine ci precedettero correndo verso casa con in mano la farfalla nel retino, che stringevano senza troppa cura. Quando ci sedemmo sul divano di broccato la farfalla era già chiusa dentro un vaso di vetro e sbatteva debolmente contro l’inganno del vetro.
“Questa, bambine, è un esemplare di Papilio Machaon, della famiglia dei Papilionidi e dell’ordine dei Lepidotteri. È una farfalla che come tante altre è attratta dalla Verbena e soprattutto dai miei amati cespugli di Buddleia, l’albero delle farfalle. Come hai visto, nipote, la radura centrale del mio giardino è piena di questa meravigliosa pianta. In questo modo accorrono spesso e numerose le farfalle e noi possiamo catturarle per ammirare le loro ali variopinte ed eleganti. Hai visto Luca? Non è splendida??”
La farfalla Macaone ora era immobile sul fondo del vaso. Non aveva occhi ma solo grandi ali zebrate di nero su uno sfondo giallo crema. Però mi sembrava di notare la sua incredulità , la sua angoscia di fronte a quella gabbia inattesa, forse era la posizione delle ali, o delle antenne, non saprei.
Aveva lunghe code sottili, bordate di azzurro con una impercettibile sfumatura rosso porpora, che poteva sembrare una giacca elegante.
Chiesi sottovoce quando l’avrebbero liberata ma mia zia non rispose.
“Ohh finalmente sento la voce del mio adorato nipote!” sospirò allegra. Ma la bocca non sorrise.
“Ora via, andate a giocare in giardino tu e le mie figlie, io finisco di parlare con questa graziosa signorina poi vi raggiungo e cerchiamo di catturare qualche altra farfalla! D’accordo?”
Quella sera il sole scese in un baleno oltre le colline color terra di siena.
Il cielo indugiò qualche minuto nella tonalità blu cobalto e poi si scurì senza preavviso, lasciando le colline attonite in un improvviso color ocra che piano piano diventava marrone bruciato.
Potei osservare tutto come dall’alto di una torre, mentre i muscoli delle gambe mi si irrigidivano senza rendermene conto. Ero in punta di piedi, proteso verso il cielo come un arbusto. In piedi sulla scrivania in legno della mia camera in soffitta, con il collo e il capo allungati a scorgere qualcosa oltre il piccolo lucernaio sul tetto.
Quando il cielo si spense mi afflosciai sulle mie gambe, improvvisamente stanco, debole, reciso come un fiore.
A cena non ero riuscito a mangiare un boccone, un po’ per quell’odore di aglio e broccoli che aveva ogni pietanza, un po’ per la farfalla che mi guardava implorante dal vaso in vetro sopra la credenza.
Avvertivo un leggero tremore delle mani, inizialmente, forse era la fame o la tensione.
Ora seduto sul letto perfettamente rifatto, sentii un fremito anche delle gambe.
Non accesi la lampada ad olio sul comodino. Rimasi al buio ascoltando il mio respiro, che si faceva piano piano più affannoso, tremante, liquido.
Come le lacrime che senza una ragione mi pennellavano di sale le guance rosate.
Provai a stendermi sulle lenzuola rigide e gelate, ma mi entrò nelle narici quell’odore di lavanda o di canfora, o entrambe, come un graffio, come una ferita da taglio.
E di scatto mi tirai su in piedi mentre il letto scricchiolava impietoso.
Non potevo rimanere in quella gabbia un secondo di più. L’aria mi entrava a fatica dal naso e dalla bocca.
Socchiusi la porta deciso e veloce. In un attimo ero giù per le scale a chiocciola, rasente al muro impolverato e ammuffito.
Come un’ombra scivolai lento fino al corridoio sul quale si aprivano le porte delle stanze della zia e delle cugine. Indugiai qualche minuto, perfettamente immobile, alla luce argentea della luna che filtrava dalle finestre e mi rendeva molto simile ad una statua greca.
Poi scesi a pian terreno come un sospiro sopra i tappeti persiani impolverati e i vasi di ceramica pieni di acqua stagnante e imputridita. Mi diressi in cucina, guidato solo dall’odore di aglio, nell’oscurità di un nero denso come catrame.
Come un automa, guidato dal tremore delle mani, mi diressi verso la credenza, verso i cassetti. Aprii senza indugio il primo cassetto, pesante e massiccio, ricolmo dell’argenteria e dei coltelli da cucina.
Le lame rifulgevano nelle loro corsie, ordinate, lustrate da poco.
Un brivido mi percorse la schiena e morì sul collo, all’attaccatura dei capelli.
Alzai di scatto la testa.
La farfalla era ancora lì, esanime, dentro il vaso chiuso dal tappo dorato.
Lo aprii e non si mosse. La appoggiai sul palmo della mano, più lentamente che potei. Mi si posò sulla pelle come un sospiro. Nel suo vestito zebrato nero con due lunghe code bordate di azzurro.
Con l’altra mano afferrai il primo coltello che trovai. Lo afferrai saldamente e uscii dalla cucina senza richiudere il cassetto.
Mi ritrovai all’entrata del giardino, sotto quella luna lattiginosa che imbiancava ogni filo d’erba. Già avvertivo la morbida fragranza dei fiori di limone e delle dolci camelie.
Fui tentato di sedermi sulla panchina addormentata, ma proseguii, oltre il melo aspro e pungente, ancora avanti, fino alla radura, oltre il cespuglio di verbena e al suo insistente, acre aroma.
Ed eccolo là , l’albero delle farfalle, la Buddleia e i suoi fiori a pannocchia penzolanti dai lunghi steli ricurvi. Eccolo l’albero cattura farfalle e il retino ancora appoggiato sull’erba dal pomeriggio.
Provai un moto di rabbia, concreta, furiosa, accanita.
E mi gettai su di esso. Con ferocia, sulle sue foglie penzolanti verde scuro, quasi nere, le feci a pezzi tenendo saldamente il manico del coltello, poi con forza sul suo odioso profumo di miele, come con un macete, sferrando colpi sui suoi fiori color malva, indaco, e infine con più forza su quelli rosso porpora, rosso sangue.
Finchè esausto non mi lasciai cadere ai suoi piedi con la farfalla ancora in mano esangue. La appoggiai delicatamente sull’erba, in mezzo alla radura, lontana dall’albero cattura farfalle ormai vinto.
La lasciai lì sola, in mezzo ai fili d’erba imbiancati di luna.
Poi mi diressi verso il limone.
Mi sdraiai sulla panchina, rannicchiato, come un feto, come un neonato a lungo atteso e desiderato. Amato. Da quell’incantato profumo di primavera, da quell’abbraccio vellutato di limoni e camelie. Amato. Finalmente. Liberato.
Bellissimo questo brano, complimenti davvero Sara!
RispondiEliminaGrazie Matteo! un pò lungo magari...avrei potuto essere più sintetica ma mi è sempre difficile farlo!
RispondiEliminasara
E' proprio una bella storia.
RispondiEliminaBrava, Sara.
Barbara